3. Inferno

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Capitolo 3 - Inferno
 

“But she's wrong about hell.
You don't have to wait until you're dead to get there.*” 

Susan Beth Pfeffer, Life As We Knew It

A Los Angeles faceva sempre caldo, il clima era confortevole anche nei mesi invernali, e in estate era l’inferno in terra, o meglio, lo era per chi lo immaginava come un luogo caldo e lambito da fiamme perenni, e non come il freddo inferno dantesco.
Ma per me, in quei giorni, l’inferno non poteva essere più insopportabile, dentro di me regnava il gelo polare quando al di fuori imperava il torrido caldo dell’estate. La mano di Bea appoggiata sulla mia gamba era bollente, eppure io sembravo non percepirla, quello era lo stato a dir poco catatonico in cui mi ero rinchiudevo ogni giorno da quando mi svegliavo finché alla sera gli incubi non mi assalivano.
Non vidi la tazza che mi porgeva la mia amica, il tè che fumava davanti ai miei occhi non era altro che un’ombra indistinta. Per quanto cercassi di ricordare, per quanto tentassi di scavare dentro di me, dentro quelle buie tenebre dell’inconscio, non ci riuscivo, come Proust quando cercava di ricordare dove aveva già goduto del sapore della petite madeleine accompagnata dal tè. E se anche cercavo di non pensarci, la mia mente era sempre indirizzata verso quei pensieri. Una lacrima silenziosa andò ad allargare la macchia sul mio maglione, avevo perso il conto di quante ne avevo versate.
Sospirai, automaticamente afferrai la tazza, il caldo bollente avrebbe dovuto scottarmi la pelle, ma non provai dolore, probabilmente avrei avuto la pelle arrossata, ma in quel momento non m’importava. Non sentivo nulla.
Bea schioccò la lingua, segno che aveva lanciato furtivamente un’occhiata all’orologio a pendolo del soggiorno. Erano quasi le otto, lo sapevo, la mia tracolla era pronta e appoggiata sul divano, ma io non lo ero, non ancora. Da quando suonava la sveglia alle sette mi alzavo e andavo in bagno, dove facevo i conti con i lividi che mi marchiavano ancora la pelle, alcuni diventati già gialli, altri ancora ben visibili, di un viola tendente al nero che mi terrorizzava. Una volta essermi lavata cercavo i vestiti più coprenti che avessi, che fossero anche invernali non m’importava, nessuno a parte me doveva vedere più quei lividi, almeno per qualche ora, lasso di tempo che passavo nella speranza che una volta a casa questi fossero spariti e che la mia pelle fosse tornata diafana e priva di imperfezioni. Arrivato a tanto così dalla porta di casa, ma una volta che i miei occhi si posavano sui fiori che si erano accampati sulla veranda sentivo la testa girare e mi salivano i conati di vomito.
Ogni giorno, prima di andarsene, Bea gettava quei fiori nei cassonetti dell’immondizia, ma questi riapparivano ogni mattina, freschi, più profumati dei precedenti e in quantità maggiore. Sapevo chi li aveva mandati, non pensavo certo che dopo una notte di sesso qualcuno si intestardisse così nella vana speranza di farsi perdonare per tutto quello che era successo. Appoggiai le labbra sulla ceramica della tazza, una di quelle che preferivo, aveva una scritta in francese all’interno e il manico a forma di Tour Eiffel. Sospirai, mi mancava mia madre, Bea mi aveva anche proposto di chiamarla per farmi confortare, ma lei si fidava di me, e io non volevo darle un dispiacere raccontandole che la mia verginità l'avevo persa facendomi violentare da un perfetto sconosciuto. Altre lacrime silenziose rigarono il mio viso, percepii Bea alzarsi e percorrere la stanza avanti e indietro ripetutamente. Normalmente, mi avrebbe resa nervosa, in quel momento non me ne importava nulla.
Fortunatamente, ero riuscita ad andare a scuola almeno il primo giorno per prendere il mio orario e per far vedere che stavo effettivamente male. Avevo inventato una scusa e per grazia divina l’infermiera rientrava mercoledì, quindi non mi avrebbe potuto visitare nessuno. Avevo simulato il principio di un’influenza a cui tutti avevano creduto, ma nessuno a parte Bea sapeva come mi sentissi davvero. Appoggiai la tazza sul pavimento e mi portai le ginocchia al petto circondandole con le braccia, i lunghi jeans mi grattavano la guancia, il climatizzatore alzato al massimo per non farmi morire di caldo dentro quei vestiti.
<< Ora vado, Lia, ci vediamo dopo >> sussurrò Bea afferrando la sua borsa e chinandosi per posarmi un bacio sul capo. Abbozzai un sorriso che era più simile una smorfia e rimasi lì a fissare il vuoto, la porta di casa che si chiudeva con un tonfo sordo, i passi di Bea sulla veranda che raccattava i fiori del giorno e li portava nel cassonetto di fronte casa. Strinsi le labbra, domandandomi per l'ennesima volta che cosa avessi fatto per meritarmi una tale punizione. Oltre al danno anche la beffa, il mio stupratore sembrava avere maturato un'ossessione compulsiva nei miei confronti.
Istintivamente afferrai il plaid accuratamente ripiegato sullo schienale del divano e me l'avvolsi attorno, raggomitolandomi come un gatto in cerca di caldo nel gelo dell'inverno. In un certo senso, quello era il mio gelido inverno, o inferno che lo si volesse chiamare, freddo come sulla cima di una montagna dove l'aria si faceva rarefatta e c'era difficoltà a respirare. Tirai la coperta fin sopra la testa, poco mi importava che a minuti sarei uscita nuovamente dal mio nascondiglio, bisognosa d'aria.
Un rumore ovattato raggiunse le mie orecchie sotto il plaid. Qualcuno stava suonando alla porta. Inizialmente pensai fosse Bea, ma lei aveva le chiavi di casa mia, non aveva alcun bisogno di bussare, a meno che non avesse le mani tanto occupate da aver bisogno di una mano. In quel caso, però, mi avrebbe chiamata urlando come al suo solito. Chiunque volesse parlarmi, doveva aver attaccato lo scotch al campanello,nessuno poteva resistere tanto a lungo con il dito premuto contro un pezzo di plastica. Sibilai fra i denti, era probabilmente uno dei miei insegnanti che voleva sapere come stessi. Ecco il brutto di vivere da sola con una madre che stava dall'altra parte del mondo, tutti si intromettevano nella tua vita senza prima chiederti il permesso. Mi alzai barcollando, stavo sudando per l'apnea a cui mi ero arresa e per il caldo opprimente che i vestiti pesanti mi causavano.
Percorrere il tratto di corridoio che mi separava dalla porta, una distanza di circa sette metri, fu facile, ma fu solo davanti all'alta porta che il mio cuore iniziò a battere velocemente. In un istante caddi in preda all'ansia, e per poco non venni colta dal panico, il respiro si ridusse ad un ansito, sentivo la testa scoppiare. Strinsi gli occhi e mi portai una mano al petto, sembrava che il cuore volesse uscirmi dal petto.
Con un immane sforzo psicologico allungai la mano tremante verso la maniglia, le dita si serrarono attorno al metallo freddo, ma questo non mi diede alcun sollievo. Aprii la porta, aspettandomi di trovare qualunque persona ma non il vuoto. La sensazione d'ansia - di puro terrore, anzi - non era affatto sparita, per nulla. Rimasi immobile, la veranda vuota e priva dei fiori che ogni mattina vedevo trasportare lì da dietro la finestra dalla mia camera sembrava quasi abbandonata, priva di alcuna vitalità. Strinsi le labbra e abbassai lo sguardo su una busta di carta appoggiata sul legno bianco. Aggrottai le sopracciglia e mi chinai allungando la mano. Fu quando afferrai la busta che mi accorsi di un'altra presenza sulla veranda.
Mi si mozzò il respiro, ma questa volta lo trattenni, gli occhi sgranati e i polmoni che reclamavano aria. No, non era possibile. Deglutii a fatica quando con la coda dell'occhio lo vidi alzarsi con un movimento fluido, quasi pigro ma comunque elegante e avvicinarsi a me. Merda. Feci per alzarmi e arretrare, ma l'unico risultato che ottenni fu quello di cadere all'indietro, la busta di carta ancora lì dove si trovava. Arretrai alla bell'e meglio di un metro, la paura mi aveva paralizzata.
L'intera sua figura occupò la mia visuale, era in controluce e la sua ombra si proiettava su di me, minacciosa, l'intenzione silenziosa di volermi prendere ancora una volta per essere la protagonista di quell'incubo. Sentii le lacrime pungermi gli occhi e pregai che non fuoriuscissero, ne aveva già viste abbastanza. Lo vidi abbassarsi raccogliere il sacchetto, rialzarsi e chinarsi verso di me, porgendomi la mano. Fissai le sue dita incurvate come grinfie, avevo la sensazione che se l'avessi toccato anche solo con un dito, non sarei più potuta tornare indietro. Ma la parte inconscia della mia mente mi disse che se non lo avessi fatto sarebbe stato lui a prendere in mano la situazione, probabilmente prendendomi in braccio e portandomi chissà dove, magari in camera da letto, oppure gli bastava solo il divano. Sussultai al pensiero, il freddo del mio inferno personale aumentò a dismisura, la temperatura colò a picco come se fosse stata legata ad un macigno e gettata in mare. Perciò, mentre lui se ne stava ancora con la mano a mezz'aria, decisi di farmi aiutare, mio malgrado.
Quando sfiorai la sua pelle sentii una potente scarica elettrica trapassarmi il corpo da parte a parte in ogni direzione possibile, e per la prima volta da giorni non ebbi freddo, come se lui mi avesse rubato tutto il calore che avevo e fosse tornato a restituirmelo. Strinsi le palpebre mentre le sue dita, delicate, si stringevano attorno alla mia mano, e con uno strattone gentile mi ritrovai in piedi, davanti a lui, con le nostre mani ancora strette l'una nell'altra. Sentivo il suo sguardo penetrante su di me, lo sentivo che cercava il mio sguardo, ma questo era puntato sulle mie dita che non tremavano e sulle sue, la presa salda che stava usando non faceva male, sembrava possessiva, ma non in modo crudele.
Alzai gli occhi su di lui, ma non incontrai i suoi, i quali, quasi per reazione, si erano abbassati sulle nostre mani. Lo vidi stringere le labbra, un'espressione di placida furia sul suo volto. Aggrottai le sopracciglia e abbassai lo sguardo anche io.
Un lembo del maglione si era alzato scoprendo il polso laddove la pelle era marchiata dall'impronta delle stesse dita che ora mi stavano stringendo la mano. Con la destra andai a tirare giù la manica del maglione e quando il livido fu coperto lui lasciò la presa, e mi sentii come cadere nel vuoto. Scossi appena il capo, incapace di capire anche solo in parte cosa stesse succedendo. Mi mordicchiai il labbro inferiore, non volevo farlo entrare ulteriormente in casa, avevo paura di ciò che potesse farmi, che se mi fossi mostrata debole anche solo un istante lui ne avrebbe approfittato.
In silenzio, mi tese la busta di carta che afferrai riluttante. Tenendola da sotto con una mano potei sentire che era tiepida, al che corrugai la fronte. L'aprii e vidi altri due sacchettini, uno contente dei croissant al cioccolato e l'altro la scatola di una pomata che intuii fosse quella che mi aveva spalmato sull'intero corpo domenica mattina. Il cuore sembrò volarmi fuori dal petto tanto palpitava forte, le mie guance si tinsero di un rosso acceso sintomo di profonda vergogna.
<< So che ti piace la cioccolata. >>
Il suo fu un sussurro, ma lo udii distintamente, ogni variazione del suo tono, ogni vibrazione della sua voce mi penetrò fin dentro le ossa facendomi rabbrividire e riportandomi alla realtà. Già, lui sapeva. Sibilai fra i denti, chissà cos'altro sapeva, magari chi era mio padre. Scossi il capo, non volevo pensarci, quella era una storia che doveva rimanere mia, mia e di mia madre, nessuno a parte noi due doveva sapere che non era morto prima che io nascessi e che era stato cremato ma che invece la mia nascita era stata frutto di una scappatella fra hippie.
Ad un tratto, in quell'inferno silenzioso, lui si volse ed uscì da casa mia, diretto verso il dondolo sul quale prima era seduto. Non lo seguii che con lo sguardo fin dove potevo, ma quando ricomparve nella mia visuale, il mio cuore fece una capriola. Avevo tanta paura di lui da temere che il suo umore cambiasse e che facesse di me ciò che di più macabro voleva? Scossi il capo nel disperato tentativo di scacciare quell'orribile pensiero.
Si fermò nello stesso punto dove si trovava prima e mi porse una cartella portadocumenti. L'afferrai, sopra con un pennarello nero indelebile era stato scritto il mio nome per intero, Dhalia Constance Beauchamp.
<< Ho pensato che volessi averla. Quella è l'unica copia e puoi farne ciò che vuoi. >>
Ecco come faceva a sceglierci - sì, avevo pensato di non essere stata la prima, non era assolutamente possibile. Ma la domanda principale era: come faceva a conoscerci, a cercarci? Io ero una ragazza a dir poco comune, lui avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva e di una categoria ben superiore e invece andava a cercare una minorenne che non contava nulla. Magari era proprio per questo, per il fatto che se fossi misteriosamente scomparsa non sarebbe importato a nessuno. No, mi rifiutavo di crederlo, o almeno, una parte di me non lo voleva accettare.
<< Credo che questo sia il momento in cui ci salutiamo per sempre, Dhalia. >>
Alzai lo sguardo su di lui, sul ragazzo di cui non sapevo nemmeno il nome, se non le iniziali. In quell'istante avrei voluto chiederglielo, ma qualcosa mi fermò, forse l'effetto che causò il mio nome pronunciato dalla sua voce. Dischiusi le labbra, non volevo che finisse così, non mi sembrava giusto.
Lo vidi allungare una mano verso di me e mi ci volle tutta la mia forza di volontà per non scostarmi. Rabbrividii quando le sue dita mi sfiorarono la guancia, una carezza leggera come piume, decisamente una delicatezza diversa da quella che mi aveva usato sabato notte. Al pensiero sentii lo stomaco contorcersi. Tenevo lo sguardo basso, non ero nemmeno in grado di guardarlo negli occhi, di sfidarlo. Lentamente, lo vidi chinarsi verso di me, intuendo nel profondo cosa avesse intenzione di fare.
Sentii le sue labbra sulla guancia, un tocco lieve ma che bruciava senza fare male, era anzi un calore piacevole che mi stuzzicava, una parte di me voleva toccarlo, avvicinarsi. Tenni gli occhi chiusi in quei lenti secondi, ma quando si staccò da me sgranai gli occhi e rimasi senza fiato.
Era stato un flash, un ricordo fugace e non ben definito ma di una cosa ero certa, il ricordo apparteneva a quella maledetta notte, quando le mani di lui erano state su di me, dentro di me. Rabbrividii e repressi un conato di vomito. Ancora una volta sentii su di me quegli occhi indagatori, preoccupati in un certo senso. Mi portai una mano alla bocca e un'altra, chiusa a pugno, allo stomaco. Sentii le lacrime agli occhi e mentre le immagini di quella notte si sovrapponevano in modo confuso e violento mi diressi verso quello dei due bagni che si trovava più vicino a me, al piano terra. Vi entrai aprendo la porta socchiusa con una spallata, direzione water. Mi ci chinai sopra, vomitando quel poco che ero riuscita a mangiare in tre giorni, ma la sensazione di disgusto verso me stessa non sparì, rimase una presenza ben definita all'interno del mio corpo. Sentii passi silenziosi venire nella mia direzione, e lo maledii mentalmente per il solo fatto di esistere.
Lo percepii chinarsi accanto a me e con le dita spostarmi i capelli dagli volto così da poter vedere una parte del mio viso. Se ci conoscessimo e non fosse successo quelle che effettivamente era successo, forse quello sarebbe potuto essere un gesto dolce, gentile, ma non lo fu affatto, almeno da parte mia non lo percepii come tale, per me fu solo un modo per farmi sentire una sua proprietà, una proprietà di cui si preoccupava perché pensava avrebbe potuto rivoltarsigli contro. Mi era sembrato, però, di avergli già dimostrato che preferivo dimenticare che essere presa sotto la sua ala protettiva per elaborare la questione. Pensavo avesse già capito che avrei preferito passare all'ultima parte, quella dell'abbandono definitivo, già da subito. Evidentemente, il messaggio non gli era arrivato abbastanza chiaramente.
Le sue labbra si strinsero, gli occhi mi scrutavano con fare meticoloso, come quelli di un medico, preferii non interrogarmi sul suo impiego lavorativo, sapevo che avere più informazioni su di lui avrebbe allungato il tempo di rimozione dei ricordi.
<< Abbiamo usato precauzioni, se è questo che ti preoccupa. >>
Probabilmente mantenni la stessa espressione disgustata perché vidi nei suoi occhi una luce d'incomprensione. In effetti, non me ne ero mai preoccupata, e mi diedi della stupida, perché effettivamente avrei dovuto farlo. Già, ero troppo sconvolta per la mia verginità perduta che non mi ero nemmeno preoccupata di sapere se avessimo usato contraccettivi. O meglio, in questo caso, quello era compito suo, no? Io ero vergine, non avevo un ragazzo, e di certo non prendevo la pillola, questo in quelle stramaledette carte doveva esserci scritto, no? Chiusi gli occhi per un attimo, scuotendo il capo, non era l'essere incinta che mi preoccupava - oh beh, sperai che una parte della mia mente almeno una volta ci avesse pensato - più che altro preferivo che quei ricordi infernali rimanessero nel mio inconscio, che mai si manifestassero, ma evidentemente le mie preghiere non erano state esaudite.
Si morse il labbro inferiore. << Vorrei dirti che eri consenziente ma non è così, o meglio, lo saresti stata se qualcuno non ti avesse messo nel bicchiere una pasticca o due. >>
Cosa stava cercando di fare, lo scaricabarile? Se ero una facile preda quella sera perché fare ricerche tanto approfondite sul mio conto? E ancora, se ero stata drogata, perché non lasciarmi in pace, non c'era nulla, nemmeno un briciolo di buon senso, che gli avesse detto di fermarsi? Ma di quale buon senso volevo parlare, se non si era fatto remore nel portarsi a letto una minorenne. O forse erano state più minorenne? Ricordai la frase che mi aveva sussurrato all'orecchio e rabbrividii, accovacciandomi sempre più, la guancia appoggiata alla fresca ceramica del water.
<< Vattene. >>
Quella non sembrava nemmeno la mia voce tanto era gelida, dura come una spessa lastra di ghiaccio. Lo vidi annuire quasi più a se stesso, quindi si alzò e allungò una mano, forse per accarezzarmi i capelli. Mi scostai, l'espressione impassibile.
<< Vattene e non farti vedere mai più. >>
Lo guardai mentre usciva dal bagno, seguii con le orecchie il suono dei suoi passi, della porta che sbatteva un po' troppo forte e le fusa di un'auto che, sgommando, si allontanava da casa mia.
Solo allora respirare mi sembrò più facile.

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*Ma si sbaglia riguardo all'inferno. Non devi aspettare di essere morto per di arrivarci.

Per chi se lo chiedesse, Dhalia non conosce il nome di questo ragazzo, e quando lo scoprirà, beh, sarà strano, almeno così lo è nella mia testa. Il fatto è che non voglio fare della mia protagonista un cliché, qualcuno di superficiale, per me lei è una ragazza semplice, di quelle che per strada non guardi nemmeno. Lo so, è strano da dire, ma succede di continuo, no?
Il titolo del capitolo è "Inferno", e sinceramente immaginavo una pseudo-discussione in salotto fra Chris e Lia in merito ad Inferno di Dan Brown, ma alla fine ho cambiato idea - lei non si sarebbe mai sognata di farlo entrare - difatti lei non lo vuole proprio nella sua vita, vuole tornare alla sua routine, e ora lo odia ancora di più perché si è ricordata di quella stramaledetta notte.

Ringrazio anche tutti voi lettori che avete messo la storia negli elenchi di lettura.
Baci al cioccolato,

liliumweiss

(bluerose95 non era disponibile su wattpad )= infatti, ricordo che io sono la stessapersona, sono sia liliumweiss qui, che bluerose95 su EFP, perciò non abbiate timore :3 )

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