Capitolo 7 | Qualcuno ti sta cercando

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1.

Il giorno successivo non era stata una bella giornata. Proprio per niente. La mattina ero stato svegliato da alcune cornacchie che da qualche tempo svolazzavano nel cielo della città, poi avevo saltato la colazione e infine studiato per cinque ore vecchi casi polverosi che nemmeno la persona più entusiasta del mondo avrebbe trovato interessante. Mentre la polvere mi si insinuava nel naso provocandomi allergie multiple cercavo di capire perché un detective dovesse leggere tutto quel cumulo di cazzate infilate in maniera asettica fra i fogli per descrivere le barbarie del genere umano. Infine mi ero completamente dimenticato di ciò che Bianca mi aveva detto la sera prima. 

«Non potrò prendere Andrea da scuola, domani. Sono fuori fino alle quattro».

«Tranquilla, lo prendo io».

«Alex,» si era messa fra me e il televisore che trasmetteva la partita «posso stare tranquilla, non è vero?».

«Diamine, sì!» l'avevo guardata esterrefatto. «In fondo è mio fratello».

«Lo so, ma se lavori in ufficio di mattina poi sei distratto per il resto della giornata. Ti conosco, ormai».

Forse aveva ragione.

Mi ero vestito dunque in tutta fretta ed ero corso fino all'asilo, avevo preso mio fratello e l'avevo portato a casa. Quando ero tornato Flavio era uscito per acquistare le sigarette e qualche birra da mettere nel mini frigo dell'ufficio; Andrea era andato al piano di sopra e, seppur fossero già le sei del pomeriggio, Bianca non era ancora tornata. Non avevo più niente da fare, dunque tornai in ufficio. Vidi il sole ambrato sbattere pesantemente sulla scrivania di Flavio, invadere il pavimento polveroso e colorare lo schermo polveroso del pc di un tenue giallino. Mi affacciai alla vetrata e vidi qualche bambino giocare a calcio in strada: ricordai la mia infanzia, le partite di pallone infinite sotto la pioggia, in mezzo alla neve, in estate nonostante il sole cocente di luglio. Eravamo una decina di cani sciolti e si giocava con poco. Se non c'erano porte, si disegnavano con dei gessetti sui muri, se non c'era un pallone regolamentare, allora si acquistavano tre o quattro bottigliette di succo di frutta, le si scolavano e poi le si schiacciavano con le suole delle scarpe. Poi le si incastravano con l'aiuto degli elastici per capelli delle nostre compagne fino a formare una consistente massa di plastica. E si iniziava a giocare.

Non esistevano falli – a meno che il tizio caduto rovinosamente al suolo non si fosse fatto male davvero – e non c'era l'ombra del fuorigioco o dei cartellini gialli e rossi. Eravamo bambini di cinque, sei o sette anni e qualcuno arrivava anche ai dieci. Ci divertivamo con poco e le partite terminavano solo quando la maggior parte di noi era abbastanza stanca da arrendersi. O quando la mamma ti sgridava perché non eri tornato in tempo per il pranzo.

Di sera guardavamo le ultime nuvole che si impossessavano del cielo striato dal rosso del tramonto e sospiravamo recriminando su gol assegnati o annullati. Se osservavo lo spiazzale di asfalto sul quale si affacciava l'agenzia investigativa, potevo guardare panchine vicino ad aiuole colme di anziani sorridenti, donne indaffarate che con la mano destra tenevano il telefono all'orecchio e con la sinistra una borsa da ufficio e uomini un po' malinconici che camminavano a piccoli passi osservando la partita dei bambini.

Il mio sguardo si perse sull'asfalto e quasi potei rivedermi tirare calci ad un mucchio di plastica ed alzare le braccia al cielo dopo un dribbling secco e un tiro con gol. Per un momento soltanto tutte le voci, le grida, gli insulti e i lamenti dei bambini che giocavano con me mi affollarono le orecchie. E mi sentii incredibilmente innocente.

E solo.

Quando entrò Bianca, sobbalzai.

Spalancò la porta dell'ufficio di fronte alla scrivania, quella che comunica con il corridoio interno della casa.

Gli occhi del buio ||| Alex Fedele - The Red Thread Saga ||| Stagione 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora