Prologo.

5.4K 203 9
                                    

Avete mai notato come alcune delle malattie peggiori della storia hanno un suono lirico?
Parole come malaria, diarrea, colera.
Forse lo fanno di proposito, per indorare la pillola, un modo carino per dire che ti senti come una cosa marrone che è precipitata dal culo del tuo cane?
Ho cercato ovunque, ma l'unica cosa che posso dire è che soffro di una strana forma di influenza.
O almeno, sono quasi sicuro che si tratti di influenza.
Ecco perché sono rimasto chiuso nel mio appartamento per giorni.
Ecco perché ho spento il telefono, e mi sono alzato dal divano solo per andare in bagno o per aprire al tizio col cibo d'asporto.

E comunque, quanto dura l'influenza?
Cinque giorni?
Anni?
La mia è iniziata mesi fa dopo che...
Non ce la faccio neanche a dirlo.
Sulla strada verso il bagno, non posso fare a meno di pensare a come ciò sia potuto accadere.
Ma partiamo dal principio.

Un tempo la mia vita non era niente male.
Anzi, era lineare.
Quando sono divenuto il capitano dei Penn Quakers tutte le emozioni che avevo vissuto fin ad allora sono state declassate lasciando il podio a quel momento.
Pensavo che niente gli avrebbe fatto concorrenza, così credevo per lo meno...
Poi è andato tutto in merda.
Oh, volete sapere come?
Volete sentire la mia storia?
Va bene, allora...

Tutto è iniziato pochi mesi fa, durante una normale partita di campionato.
Che cos'è l'orgoglio?
In pratica è quel sentimento di fiera soddisfazione per i nostri successi o un'ostinata e impenetrabile barriera che frapponiamo fra noi e l'altro per non scendere a compromessi.
Esattamente quello che è successo a me.

La palla.
Io.
Gli stronzi di fronte a me.
Il pubblico.
Il canestro.
Sprizzavo di orgoglio ovunque.
Ero carico, anche se avevo lo stomaco sottosopra.
La mattino mi ero svegliato presto per allenarmi prima della partita.
Non usavo mai la sveglia perché ho un orologio interno che ogni mattina interrompe il mio sonno alla stessa ora, infischiandosene di quanto io sia stanco o di quanto tardi abbia fatto la sera prima.
Il coach Maier non era tanto sicuro di farmi giocare, dopo aver saputo grazie al mio agente, nonché migliore amico del mio stato di salute, ma alla fine l'ho convinto e aveva ceduto.
Non avrebbe avuto motivo per farmi rimanere in panchina visto che molto probabilmente ero molto più in forma di tutti i miei compagni di squadra messi insieme.
Tano meno non avrei mai compromesso la nostra vittoria.
Sapevo di potercela fare.
La NCAA gestisce le miglior squadre di sempre e se la mia squadra faceva parte della Division era solo grazie a me.
Siamo gli Penn Quakers la squadra di basket che aveva già vinto tre nazionali nella squadra maschile e uno nella squadra femminile.
Non li avrei delusi.
Soprattutto ora che la regular season stava per finire e la Ivy League era così vicina; non serviva dire quanto avevo voglia di vincere il trofeo.

Il trofeo.

Stavo già immaginando di toccarlo quando Turner, il coglione patentato,
mi ha sfidato con un'occhiatina sprezzante.
Il mio passo ha vacillato, soltanto un secondo.
Lui sorrideva.
Se n'era accorto.
Ha provato a rubarmi la palla e gli ho risposto con una smorfia sicura.
Non doveva vincere.
Non importava quanta nausea io avevo.
Hansel-baciami-il-culo-Turner e l'altro avversario, non mi potevano fermare.
Ero o non ero il miglior giocatore più giovane di sempre?

Sono stato sul campo per tutta la sera.
Ho resistito più della mia squadra e della sua.
Diversi canestri.
Nessun fallo.
Nessun incidente.
E Zack Hansel era ancora in piedi.
Sono il campione.
Della finale.
Del mondo.
Di tutto.
Il numero ventotto.
Avevo pochi secondi per completare l'attacco.
L'adrenalina mi circolava nelle vene insieme al mio nome che risuonava per
metà stadio, l'altra metà taceva, si stava cagando addosso perché tifava per la squadra sbagliata.

Il trofeo.

Il premio di miglior giocatore.
L'anello del campionato.
Tutto mio.
Anche quest'anno.
Il pubblico mi acclamava.
I miei avversari che mi odiavano, mi temevano e mi invidiavano.
Griffiths che era ancora in campo con me e che tra poco avrebbe esultato per noi.
Perché sapeva cosa stavo per fare.
Un segno degno della finalissima del campionato giocata in casa.
A pochissimo dal fischio della fine.
Assaporavo già il gusto della vittoria mentre mi alzavo per centrare il canestro e la palla... era andata fuori.

Non è facile essere me.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora