Matteo non conosceva la risposta a quella domanda, come non ne conosceva di tante altre domande, ma quella in particolare lo fece rimanere zitto. La professoressa scrisse sul registro l'ennesimo tre e Matteo tornò al suo posto col capo basso, in silenzio. Carlo gli posò una mano sulla coscia in segno di conforto, ma sapeva che non serviva a cambiare le cose. Una goccia calda colpì la mano di Carlo e lui capì che quel tre era una sconfitta e non solo un voto. La professoressa uscì di classe dopo aver dato compiti che nessuno avrebbe fatto e Matteo tirò un calcio al banco, buttandolo a terra, a troppi centimetri di distanza. Prese la cattedra fra le mani e la spinse a terra e altrettanto fece con la lavagna. Prese lo zaino ed uscì. In classe regnava il silenzio.
Venne chiamato il preside e Matteo fu espulso dalla scuola con bocciatura immediata. I genitori vennero avvertiti per telefono e quella volta arrivano a casa troppo tardi. Notarono subito le gocce di sangue che macchiavano le scale e corsero in camera di Matteo. Era disteso per terra con gli occhi gonfi, lo ricopriva un odore violento, sporco, colpevole, odore di fumo e droga. Suo padre chiamò il 118 mentre sua madre piangeva incessantemente.
Matteo si riprese qualche giorno dopo, sui bracci aveva cicatrici lunghe, ricordo di tagli profondi incisi con furia e rabbia. Erano stati tagli veloci, dolorosi e puzzolenti, ricuciti con estrema cura e attenzione. Camminava lento, senza emozioni, contando nella testa ogni secondo che passava, ascoltando i rumori e non le parole. Con i genitori non voleva parlare, con Carlo aveva chiuso ogni contatto, non aveva la fidanzata e quindi si era escluso dal mondo intero. I genitori avrebbero voluto chiedere aiuto ad uno psicologo, ma Matteo non voleva saperne di essere studiato.
Voleva stare solo, al buio, con se stesso.
In realtà Matteo non era solo, aveva un amico, ma un amico di cui nessuno conosceva l'esistenza. Erano inseparabili, ma nessuno lo sapeva. Matteo non lo consultava quasi mai, ma il suo amico aveva imparato a leggerne le espressioni e sapeva sempre quale era la risposta delle domande che Matteo non faceva. Matteo lo chiamava "Coso" quando doveva interpellarlo e quando lo faceva, usava il tono più menefreghista che conosceva.
- Perché lo hai fatto? -
Matteo non voleva dargli spiegazioni e gli fece solo segno di restare in silenzio.
- No, non ci sto zitto, tu sei importante, mi servi, non puoi permetterti certe sbandate, me lo hai promesso! -
Matteo si tappò le orecchie
- Coso, hai rotto. - gli rispose.
- Matteo sei in camera? - la madre lo chiamava, ma Matteo per non sentire "Coso" si era tappato le orecchie e quindi non le rispose.
La madre entrò, aprendo la porta molto lentamente.
- Matteo? -
- Mamma? - la guardò incuriosito, - cosa fai qui? -
La madre ascoltò le parole di Matteo soppesandole una ad una e poi scoppiò a piangere uscendo dalla stanza. Matteo si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi ricordando il giorno maledetto.
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Una maledizione è per sempre
General FictionCi sono maledizioni che non ti puoi levare di dosso.