𝟏.𝟑- 𝐥'𝐚𝐦𝐨𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐦𝐞𝐳𝐳𝐨 𝐚 𝐧𝐨𝐢

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Ettore, qualche giorno più tardi, aveva preso dalle scuderie Xanto, il suo cavallo preferito, e varcato le soglie della città di Troia, dirigendosi verso Dardano. Il vento spirava favorevole, gli zoccoli dell'animale provocavano uno scalpitio forte ma poco fastidioso, scontrandosi talvolta col rumore piacevole della brezza fresca. Sebbene la stagione calda si stesse sempre più avvicinando, l'aria di montagna che respiravano i dardanidi avrebbe permeato sempiternamente l'Ida e i boschi che popolavano quelle pendici rocciose.
Arrivò presso le stalle dei puledri di Anchise, ringraziò Echepolo per aver prelevato il cavallo sotto la sua tutela e fu scortato da due servi alla porta principale. Ad aprirgli fu un'ancella, lietissima per la venuta del celebre Priamide, la quale si inchinò dinnanzi alla sua figura imponente. Dopodiché egli attese nella sala principale del palazzo la venuta di Enea: ne ammirò le pareti e il legno ben intagliato, così diverso rispetto al bronzo che riempiva le camere della reggia di suo padre, ma a colpirlo fu proprio la regalità con cui quell'apparenza umile si poneva. Ettore aveva sempre ammirato dei dardanidi la loro semplicità e fierezza, che li rendevano un popolo efficiente e orgoglioso. Mentre la ventosa Ilio, città dell'oro, sembrava un gioiellino incastonato ancora nell'epoca di Saturno, quasi un ritorno alle origini*[1], di Dardano apprezzava il pragmatismo e la completa dedizione che gli abitanti, anche i più benestanti, avevano per l'agricoltura e la transumanza. Non di rado aveva visto Enea applicato in quelle attività, anzi: pareva quest'ultimo avesse instaurato un bel rapporto con le mandrie di suo padre, e che quasi gli piacesse quell'esistenza bucolica stravagante per uno del suo rango.
Eppure di bizzarro non v'era nulla: sin da quando ad Assarco*[2] fu affidata quella città, i suoi abitanti e lui stesso – tramandando poi il costume ai figli – si erano sempre applicati a far sì che dal punto di vista produttivo risultasse un'entità autosufficiente, svincolata dal dominio della vicina Troia.

I passi di Enea lo destarono da quelle sue riflessioni, costringendolo a voltarsi: era molto più alto di lui e aveva il fisico più slanciato, tipico della stirpe dardanide, accompagnato dal viso candido e puro ma che non mancava della sua virilità. Ettore, dal canto suo, era più robusto e massiccio, e aveva la pelle quasi scura, o comunque molto abbronzata. A completare quel quadro che ispirava vigore, dettato soprattutto dal taglio affilato e netto delle sopracciglia, vi era l'ispida e curata barbetta nera e i folti capelli del medesimo colore. Anomalia la si notava negli occhi, quel chiaro verdognolo appartenente anche a Cassandra e tipico della discendenza di Priamo, che con altri figli poteva addirittura divenire ceruleo, come per Creusa, o grigio, come per Deifobo.

Non appena i due si scorsero si sorrisero da lontano, ed Enea fu il primo a prendere parola:«Salve, cugino, è un piacere vederti! Quale vento ti conduce a casa mia, hai per caso urgenza di parlarmi?»
Ettore, annuendo, ricambiò il suo sorriso smagliante con un risolino più contenuto, tipico del suo carattere chiuso e rude. Gli si avvicinò a passo lento, lasciando intravedere l'arco che gli pendeva da una spalla e il pugnale dalla cintura che aveva in vita.
Rispose:«Mio padre avrebbe voluto inviare dei suoi ambasciatori per comunicarti la notizia, eppure ho preferito raggiungerti io e riferirtela: stasera vorrebbe che tu presenziassi alla cena di famiglia, vorrebbe consegnarti la dote per il futuro matrimonio con mia sorella. Fa' venire assieme a te tuo padre e i tuoi fratelli, ne sarebbe allietato.»
Gli occhi del dardanide si illuminarono di un azzurro ancor più intenso del firmamento: non sapeva se definirsi più sorpreso poiché Priamo lo invitava alla sua mensa o perché si era premurato di mandargli lo stesso Ettore a riferirglielo. Forse l'unica cosa di cui era consapevole era il fatto che tutto ciò lo rendesse felice, e già pregustava, nell'attesa, l'idea di conversare con la sua futura sposa. Si toccò un ciuffo color rame che gli era ricaduto sulla fronte e respirò profondamente. Il cuore aveva preso a battergli nel petto, e le parole parevano bloccate nella sua gola, come il flusso dei detriti di un fiume in procinto di raggiungere il mare, ma trattenuti dalla corrente del bacino idrografico più piccolo.

«Come rifiutare tale allettante proposta?», chiese, quasi retoricamente, «Verrò stasera, lo prometto: porterò doni alla mia futura sposa, così che prima delle nozze abbia il piacere di porgerle ulteriori regali di fidanzamento; inoltre condurrò a Troia oro e argento in abbondanza, sicché anche i tuoi nobili genitori siano ricompensati del privilegio a me offerto».
«Il fatto che tu abbia accettato mi solleva, lo confesso apertamente: eppure, non è del tutto casuale che proprio io ti abbia chiesto ciò. Come puoi vedere sono armato di arco e pugnale, e ti dirò, è da tempo che non mi dedico alla caccia. Ti farebbe piacere accompagnarmi al bosco e tenermi compagnia, come ai vecchi tempi?» domandò, in memoria di quel passato da giovane scudiero che aveva avuto il piacere di condividere con lui.
«Non potrei declinare: in fondo, anche io avrei bisogno di risvegliare la mia attitudine cacciatrice. Da quando sono prossimo al trono di Dardano, i miei impegni diplomatici si sono moltiplicati», ammise l'altro, con la voce che lasciava ben percepire la stanchezza che quegli incarichi gli stavano dando, tra notti di sonno arretrato e perenni preoccupazioni.
«Perfetto,» asserì infine Ettore, che lo seguì nel magazzino, dove aveva riposte le armi che era solito brandire.
Prese da un alto scaffale il suo arco, assieme a due lance e un altro pugnale: quella era la stagione dei daini, più attrezzati erano e più avevano possibilità di prenderli.
Entrambi indossavano le tuniche frigie, tipici indumenti di quelle zone, che arrivavano al femore ed erano pratiche per le attività dinamiche come la caccia e la pesca: erano legate in vita da una leggera cintura che, come nel loro caso, era più scura rispetto al colore dell'indumento. La particolarità del loro abbigliamento era proprio il berretto frigio: un copricapo rosso con la punta in avanti molto diffuso presso i sacerdoti, e che in seguito presero a indossare tutti, specie nelle stagioni più calde.

«Te l'ha prestato tuo zio Laocoonte quello?» chiese Ettore, divertito, «Ti calza enorme!»
Enea sghignazzò:«Non fare lo spiritoso e andiamo, ti ho dato quello di mio padre!»
Ettore alzò in alto lo sguardo e scosse il capo, seguendo il cugino presso le scuderie per riprendere i loro cavalli. Prima, però, andarono verso il luogo in cui tenevano rinchiusi i cani, e da lì Enea prelevò Mera, la sua bestiola preferita quando si trattava di cacciare nei boschi.
«Vieni qui,» la richiamò il suo padrone, piegandosi per accarezzare quel musetto tenero, «oggi ci aiuterai tu, d'accordo?»
Lo scodinzolare dell'animale fece intuire al dardanide come una sorta di risposta positiva, che in qualche modo strano si rifletteva nei suoi occhi, neri e vispi, sempre attenti quando si doveva fiutare una nuova preda. 
Enea fece poi cenno a Ettore di andare, e insieme videro i volti dei cavalli sporgersi dalla loro scuderia, come ansiosi di essere liberati.           
Li sciolsero dalle catene e montarono in sella, chi sul fedele Xanto dal manto scuro, che rispecchiava i moti dell'animo di Ettore, e chi su Mercurio, il corsiero dalla criniera castana che possedeva l'Anchisiade.
Una volta fuori, dove potevano osservare da un'altura la vastità della piana verde, cominciarono a cavalcare mentre Mera prese velocemente la rincorsa, e gli zoccoli dei cavalli risuonavano sul suolo quasi un tagliente monito di guerra. Altrimenti perché Ettore era conosciuto da tutti come il domatore di cavalli? Lui, che nelle stalle di suo padre era come se ci vivesse, e trasferiva ai suoi fratelli lo stesso desiderio di accudire quelle bestie così vigorose e forti. Tuttavia, era probabile che non avesse solo trasmesso ai maschi del casato quella passione travolgente, e che anche Creusa prediligesse trascorrere il suo tempo coi corsieri piuttosto che alle prese con le attività che le spettavano, ovvero quelle che seguivano assiduamente Andromaca, le sue sorelle, sua madre Ecuba e sua zia Teano: la conocchia, per quanto simbolo delle donne virtuose e strumento per la filatura, non le sembrava più interessante di una passeggiata a cavallo. Quando era più giovane e lontana dall'età da marito, amava trascorrere il suo tempo con le ninfe devote a Diana e a Cibele e con Alike, la sua compagna preferita, e avventurarsi alla ricerca delle creature dei boschi. Crescendo, poi, e in particolare negli ultimi due anni, era stata vincolata da sua madre affinché potesse divenire un'ottima matrona e magari, un giorno, la regina di Dardano. Le era stato insegnato tutto ciò che doveva sapere, ed ella era fiera del fatto che non solo era capace di sapersi difendere autonomamente, ma anche di badare alla casa e dedicarsi alle attività che, una volta sposata, avrebbe dovuto svolgere.

«Siamo quasi arrivati,» dichiarò Enea, «Mera sta fiutando qualcosa.»
Ettore, immerso nei suoi pensieri, solo poco dopo aveva prestato attenzione alle parole di suo cugino, rispondendo con un cenno di assenso. I cavalli rallentarono il loro andamento, e seguirono la cagnolina del dardanide mentre era col muso puntato verso terra. Più i suoi passi si facevano veloci, e più credevano di essere vicini a un dama-dama*[3], e invece...
«Mera!» esclamò la voce conosciuta di un cacciatore di quelle parti, «Sta' attenta a dove ti infili.»
Enea ed Ettore scesero dai loro cavalli, e i volti furono sorpresi quando videro loro cugino Seresto piegato dietro un cespuglio, accompagnato da Sirio, il suo fedele cane.
«Maledetto!» biascicò il Priamide tra i denti, con una punta di ironico rancore, «Pensavamo fossi il daino.»
«Mera c'è andata vicina,» dichiarò l'altro, facendo capolino a Enea con una mano. Dopodiché indicò un cervide presente davanti a loro, mentre beveva presso la fonte del Simoenta, a una distanza ragionevole per attaccarlo.
«Quando prima sono venuto col mio Sirio,» continuò, «esso era già lì, e sto attendendo il momento giusto per accaparrarmelo. Non vorrete portarmelo via, spero.»
«Assolutamente no,» mentì Enea con fare esilarante, prendendo posto accanto al compagno, «ma essendo la stagione giusta non credo che si possa rinunciare a una sana rivalità. Non è vero, Ettore?»
Annuendo, l'interpellato aggiunse:«Fossi in voi, mi guarderei bene le spalle da chi ha molta esperienza,» e pronunciata quella frase, sicuro di colpire il damma**[3], tese bene l'arco e scoccò la sua freccia, andando a mancare di poco l'animale a causa di un fatale alito di vento.
Enea e Seresto lo guardarono, e cercarono di reprimere la risata vivace che si fece spazio nei loro animi. Ettore, il grande e sommo domatore di cavalli che fa fuggire via un daino così innocuo e indifeso, quell'immagine non poteva essere più comica e caricaturale.
«Beh...» preda della vergogna e della rabbia, il Priamide aveva bisogno di una buona giustificazione per quel suo colpo mancato, «stavo pensando a... mia moglie, sì, la mia adoratissima moglie, e si sa che quando le donne invadono le menti degli uomini i pensieri diventano annebbiati...»
Sia per il dardanide che per il cacciatore frigio al suo fianco, quella scusa risultava poco credibile; tuttavia, lasciarono che Ettore proseguisse con il suo discorso di autoconsolazione.
«Oh, insomma, a te non capita mai quando pensi a mia sorella?» domandò, in riferimento a Enea che inarcò vistosamente le sopracciglia.
«E a te?» si rivolse poi a Seresto, «A te non capita mai se solo la tua mente cade sull'immagine di Alike?»
Anche quella volta, quello che Ettore ottenne non fu che un cenno di dissenso da parte del ragazzo biondo che, seguito dal fido Sirio, si sollevò per incontrare il suo sguardo.
«Semmai Alike mi ispira, Ettore, non di certo è una distrazione», lo provocò, mettendo poi le braccia conserte.

Il giovane Seresto, difatti, per quanto secondogenito di Otreo, re dell'importantissimo casato frigio, era riuscito a trovare moglie prima di Mnesteo, il suo fratello maggiore, che invece si divertiva maggiormente a intraprendere la strada dell'avventura. Era stato promesso ad Alike, e la cerimonia delle loro nozze sarebbe avvenuta qualche tempo dopo quella di Enea e Creusa, ritenuta di maggiore importanza per le origini nobilissime di entrambi. Oltre a essere un condottiero degno di nota, era un abile cacciatore, che sin da adolescente era stato preso sotto la protezione di Irtaco, ormai suo futuro suocero.

«Non perdiamoci in chiacchiere,» richiamò l'attenzione Enea, «dato che lì è presente un altro daino. Se ci avvicinassimo con cautela, forse avremmo la fortuna di acciuffarlo.»
Gli altri annuirono simultaneamente, e ascoltati i consigli dell'Anchisiade tentarono di provocare il meno possibile anche il minimo tintinnio.
L'unica cosa che si udiva, dunque, era il fruscio delle foglie spazzate dal vento, e insieme a esso anche lo scorrere lieve dell'acqua del fiume, la quale si districava in più piccoli ruscelletti. I ragazzi stettero attenti al solo sbaglio: non pestarono alcun ramo e fecero attenzione anche ai sassolini distribuiti per terra come mollichine di pane. E poi lo videro, finalmente: un daino dalle corna lunghe e il pelo chiaro, quasi dorato, maculato da tante chiazze bianche che variavano di poco la loro dimensione. I suoi occhi erano vispi, di un castano vivo, simile al miele, e, come richiamati da un rumore lontano, ignari dei cacciatori, fissarono il più immenso vuoto, focalizzandosi su uno di quei corsi d'acqua che erano fonte dell'unico rumore lì presente.

Enea chiuse gli occhi, come per percepire attorno a sé il vento e intuire la direzione dove esso spirasse; poi, dopo aver tranquillizzato Mera con una carezza, pregandole di non abbaiare, incoccò la freccia una volta posizionato correttamente l'arco e tesa la corda.
«Che Diana me la mandi buona,» sussurrò tra sé e sé. Lasciò che la freccia viaggiasse da sola, egli si limitò semplicemente a osservarla, come un inutile spettatore che prendeva posto alla platea che guardava sorpresa lo spettacolo tetro della morte.
Solo quando la vibrazione divenne forte alle orecchie del daino, allora, quest'ultimo si voltò verso la saetta, e divenne atterrito nel volto, fino a che, una volta colpito, non trattenne il suo ultimo bramito.

«Caspita...» sussurrò Seresto, «lo hai ucciso in un solo colpo e senza nemmeno aver avuto la visuale migliore.»
«Indubbiamente fortuna...» sbuffò Ettore.
«Indubbiamente invidia,» replicò simpaticamente Seresto, «e comunque erano miei, Sirio li aveva fiutati per primi.»
«Tu e questo cane!» esalò Ettore.
«In effetti hai ragione, Seresto,» concordò invece Enea, «perché non porti il cervide con te?»
«No, scherzavo,» declinò il frigio, «sarebbe disonorevole accettare i premi vinti da altri. Goditelo, Enea, ch'io devo andare. Ci si rivede...» e congedandosi voltò loro le spalle, sparendo dietro ai monti.

Ettore aiutò Enea a sollevare l'animale ucciso, per poi condurlo in groppa a Mercurio e legarlo saldamente. Poco dopo, decisero che incamminarsi nel bosco era meglio per entrambi, dato che trascorrere ore soleggiate durante la mattinata a oziare non era la scelta migliore. Invece, l'aria fresca che si provava tra i gelsi e i sorbi era più piacevole e produttiva, poiché dava loro lo spazio necessario per le riflessioni che venivano fuori dalla mente. Il silenzio, anche in compagnia di un amico o di leggeri rumori, sapeva regalare al cervello le più stimolanti attività, o almeno così lo percepiva Enea. Ettore sfruttava il silenzio per la contemplazione, per la meditazione, come quella che si aveva quando ci si trovava soli su un campo di battaglia pieno di cadaveri. Per lui la pace e la morte erano da definirsi sinonimi, e il suo animo veniva continuamente percosso da turbamenti, da una memoria che risaliva fin quando era piccolo, e gli creava quella perpetua diffidenza di cui ormai il suo carattere era pregno. 
Ettore era, infatti, colpito dal modo in cui Enea interagiva con la natura e col mondo – il suo mondo – che lo circondava. Appariva così rilassato, così connesso, che su di lui il silenzio aveva un effetto opposto: non di tormento, non di pace, ma di collegamento.
Il battito delle ali di due colombe, poi, attirò l'attenzione di entrambi. I due si guardarono negli occhi e si mostrarono sorpresi, non sapendo da dove provenissero quei due volatili, né se lo chiesero: erano come chiamati a seguire loro, sino al raggiungimento di un mirto che, in mezzo a tutte le altre piante, spiccava per la sua magnificenza. 
«Mi ricordo di questo luogo», sussurrò il figlio di Anchise, «sono cresciuto qui durante i miei primi cinque anni di vita, assieme a Lirno, quella buon'anima di mio fratello che chissà quale fine ha fatto... Le ninfe ci avevano accolto e allevato qui per non destare sospetti agli occhi degli dèi, e anche Chirone, mezzo cavallo e mezzo uomo, mi aveva educato, e insegnato il tiro con l'arco, principianti arti mediche e la musica. Al quinto anno venne mia madre, che mi prese sotto la sua ala e mi condusse presso mio padre, all'epoca un soldato formidabile e bellissimo. Mi guardò con una dolcezza unica, ce l'ho ancora negli occhi il suo delizioso sguardo, mi accarezzò il volto, e mia madre gli prese la mano. Sorridendogli rinnovò la promessa che si erano fatti la notte in cui ero stato concepito. La promessa che non fu mantenuta, a causa dell'odiosa ebbrezza. Rivelò a tutti la mia identità mentre era in una locanda, e come non poteva il sovrano degli dèi e degli uomini punirlo? Così vide la sua folgore davanti agli occhi stanchi, mentre pasceva le sue mandrie. Mia madre, il cui desiderio per lui, magari, era ancora acceso, lo difese con la sua cintura, facendo sì che il fulmine scoppiettasse normalmente ai suoi piedi. Ma l'evento fu così scioccante per quell'uomo che mai più in vita sua fu capace di raddrizzare la schiena. Perciò crebbi sotto le cure di Alcatoo e mia sorella.»

Nel sentire quelle storie che forse Enea gli aveva narrato un milione di volte, Ettore non poté che estendere uno sguardo vacuo verso un punto inesistente, come quello dello stesso daino di prima che, in procinto di morire, contemplava il mondo un'ultima volta con quegli occhi che stavano per chiudersi definitivamente. Pensò alla sua famiglia, al tanto acclamato padre, Priamo, re delle genti, e a come ambisse a diventare come lui quanto a forza e potenza. Mentre Enea stava per essere reso re di Dardano, il tempo che Ettore aveva per perfezionarsi era ancora lungo. Priamo non avrebbe di certo ceduto così il suo trono, e da un lato provava invidia per sua sorella che sarebbe divenuta regina prima di sua moglie. Il suo pensiero ricadde proprio su Creusa, e in vista di quella stessa cena di fidanzamento, non poté che guardare Enea, il quale invano stava attendendo una sua risposta.
«Pensavo a Euridice...» sussurrò, «sarà molto contenta della proposta che le farai stasera.»
«Tu dici?» il tono di Enea tradiva una nota di forte insicurezza, a cui Ettore non poté non prestare attenzione, sorprendendosi.
«Ella ti adora, cugino, non so cosa farebbe pur di venire a vivere con te», rispose secco Ettore, come per recidere il discorso così come lo aveva iniziato. Enea, tuttavia, notò che quella sua sintesi mirava a celare ben altro.
«E questo desiderio è legato a qualcosa in particolare?» indagò, con aria apparentemente innocua.
«Diciamo solo che il rapporto con nostro padre è... è molto difficile», quelle semplici, forzate parole riuscirono a far comprendere a Enea molto più di quanto la sua mente fosse solo in grado di pensare. Quando era scudiero di Priamo, non era nuovo ai suoi attacchi d'ira e rabbia, e il frignare silenzioso che sentiva durante la notte non poteva che appartenere a una sola persona. L'essere più ribelle e al contempo affascinante che l'Anchisiade avesse mai conosciuto. Creusa, la sua Creusa, che spiccava come una vena d'oro in mezzo a una fossa di letame, l'essere con cui era capace di scambiare migliaia di parole e, allo stesso tempo, far parlare i suoi occhi.
«Non necessito di sapere altro...» confessò Enea, «spero solo che stasera né io né te saremo costretti ad assistere a piacevoli inconvenienti.»
«Lo spero anch'io, dato che saranno presenti tutte le nostre famiglie: figurarsi se zia Teano non si mette in mezzo se quei due minacciano di prendersi a capelli,» confidò Ettore con una certa e ottimistica ironia.
«Verrà anche zia Teano? Ma che quadro completo! Ci vuole solo che nostro cugino Agenore diventi nuovamente ubriaco fradicio o che zio Antenore si metta a fare discorsi di divina retorica...»
Entrambi risero nel porre pensiero verso i loro stravaganti parenti, ma dietro quella sincera ironia si nascondeva una paura immensa di sbagliare tutto, e di non riuscire a trarre in salvo la sua Creusa prima che fosse troppo tardi.
"E se sbagliassi?", si stava domandando Enea, "e se io per lei non dovessi essere abbastanza? E se lei si fosse aspettata ben altro che uno come me?"
Se suo padre o Alcatoo lo avessero sentito in quel momento, avrebbero sicuramente definito le sue come stupide paranoie.
«A proposito di stasera,» lo ridestò Ettore, «credo sia meglio avviarci: il sole è a metà del suo corso.»
Enea convenne e annuì, dopodiché insieme si diressero verso i cavalli, presero archi e frecce e divisero le loro strade: l'uno andò alla reggia di Priamo, l'altro alla casa del padre, dove Ippodamia e Alcatoo l'attendevano con ansia.

Mera si sollevò dalla sua postazione, non appena aveva udito i passi di Enea si risvegliò dal dolce sopore in cui era crollata. Seguì sempre in corsa il suo padrone che cavalcava con Mercurio verso i monti dardanidi, e appena raggiunsero le stalle poté dirigersi verso il cortile in cui scodinzolava e giocherellava con gli altri cagnolini. Enea, invece, indirizzò il suo cavallo verso le scuderie, scorgendo in lontananza Echepolo che si stava prendendo cura di tutti gli altri animali.
«Che fine avevi fatto?» gli domandò quest'ultimo, sempre con le solite gentilissime maniere.
«Ero a caccia con Ettore e Seresto, e guarda cosa ho racimolato», scese dal corsiero in una mossa fulminea e mostrò il daino che lui ed Ettore avevano saldamente legato a testa in giù.
«Davvero sorprendente, nostro padre sarà fiero di te», come sempre, omesse, limitandosi a bisbigliarlo in mezzo ai denti.
«Ti ringrazio,» anche se Enea non aveva ignorato l'espressione del fratellastro, decise di mostrarsi comunque gentile, «e c'è una cosa che devo annunciare a te e a tutta la famiglia. Seguimi, approfitterò del pranzo per riferirlo anche agli altri.»
Echepolo, leggermente stordito da tanta allegrezza, annuì e venne dietro il fratello minore. Nella sala dedicata al pranzo la tavola era già enormemente imbandita, e mentre gli uomini avevano già preso posto, le donne attendevano al di fuori il proprio turno. Nel primo pomeriggio, difatti, erano soliti consumare il pranzo prima i maschi della casata nobile – per quanto poco rallegrati dall'assenza delle proprie consorti – e poi le altre.

Anchise presenziava a capotavola in qualità di capo famiglia; alla sua destra vi era Alcatoo, e accanto a quest'ultimo Elimo. Vedendo i figli arrivare increspò le labbra in un sorriso – quello, almeno, il buon vecchio Anchise non lo perdeva mai – e indicò immediatamente le postazioni dei due con una mano.
«Accomodatevi,» disse, «per vostra fortuna il pasto non è stato ancora esaurito».
Per primo Enea si sedette di fianco al padre, Echepolo seguì poco dopo.
Nell'istante che succedette il loro arrivo, degli schiavi condussero alla tavola le pietanze, tra esse si notavano in particolar modo le dolci focacce ai fichi che Ilia aveva personalmente impastato – in quanto, assieme alla filatura, l'arte culinaria fosse da lei prediletta –.
«Allora, figli miei? Avete qualcosa da raccontarmi?» iniziò a chiedere Anchise, con quel suo fare sempre dolce e paterno, «Ah, Enea... ho saputo che sei andato a caccia stamattina e hai preso un damma! Eri da solo?»
L'interpellato scosse il capo, alzando lo sguardo verso l'anziano:«Non ero solo, Ettore mi ha personalmente accompagnato, comunicandomi una notizia che lascerà stupefatti tutti voi: stasera, alla reggia di Priamo, si terrà un symposium*[4] in onore del mio fidanzamento con Euridice: il re vorrebbe che tutti voi veniste per consolidare la nostra unione in qualità di testimoni».
Anchise fu il primo che sorrise a quella notizia stupefacente, e non sapendo cosa dire concesse la parola ad Alcatoo, che invece era ottimo a usare le parole:«È una... splendida notizia, figliolo, indubbiamente. Credo che sia io, che tuo padre, che i tuoi fratelli siamo d'accordo a voler che questa unione si consolidi, d'altra parte Euridice è un'ottima donna, capace di fare qualsiasi cosa, e con cui vedo che hai instaurato una relazione solida e costante.»
Enea asserì con un semplice cenno del capo: proferire qualche frase non avrebbe reso giustizia a ciò che in quel momento stava provando. I suoi occhi, almeno sotto l'impressione di Alcatoo, risultavano fermi e decisi in quella decisione: erano anni che Enea ambiva a sposare la sua Creusa, forse in tempi ancora antecedenti rispetto a quel famoso torneo di due anni prima. Ogni inverno, difatti, si celebravano dei giochi in onore di Paride Alessandro, il figlio che il re aveva dovuto sacrificare a causa di un'antica profezia sconosciuta ai più. Spesso, durante le attività sportive, gli uomini e in particolare quelli in età da marito, se fossero risultati vincitori, avrebbero avuto la possibilità di chiedere la mano della fanciulla ambita al padre. Quell'anno non era stato l'unico a essersi proposto per la giovane Priamide, tuttavia, ella aveva designato lui e nessun altro. Priamo non poteva che approvare quell'unione: Enea era stato suo scudiero, e benché poco incline ad ammetterne il valore, lo riconosceva ampiamente. Inoltre, vista la nobiltà del casato dardanide, la scelta era più che vantaggiosa.

«Parlando delle cose serie,» intervenne poco dopo Elimo, «il daino a cosa serve?»
«Purtroppo per te non a essere mangiato,» rispose Enea,  «lo sacrificherò a Giove quest'oggi, al fine di avere la loro benedizione per la cerimonia nuziale. Ebbene, sono cose che dovresti sapere, dato che tra noi due sei tu a essere il sacerdote.»
«Conosci meglio tu i riti che qualsiasi altro essere vivente in tutta la Troade,» sbuffò Echepolo, sbocconcellando poco vogliosamente il suo pezzo di pane e fichi.
«È importante, mio caro,» aggiunse Anchise, «bisogna sempre venerare gli dèi: al minimo sbaglio potresti essere colpito alla sprovvista». Seppur velato, si notava il chiaro riferimento che Anchise aveva rivolto alla sua condizione, invitando i suoi figli a non commettere i medesimi errori.
«Dovrei avere timore degli dèi?» chiese nuovamente Echepolo, col suo solito tono indisponente.
«Dovresti,» lo rimbeccò Alcatoo, che lo fulminò con lo sguardo, «potrebbero condannarti alla morte da un giorno all'altro, e tu potresti non accorgertene, se non porti rispetto al padre Giove e ai suoi figli e fratelli.»
Dietro quella frase, il troiano celava la sua forte religiosità e fedeltà al mondo divino: suo padre Esiete gli aveva sempre insegnato che qualsiasi supplizio o morte ingloriosa era frutto di un mancato rispetto verso i Numi, e in particolar modo a Giove, il più importante. Perciò aveva cercato di trasmettere la più totale conoscenza dei riti e delle celebrazioni sacrificali a Enea, cosicché fosse benedetto dagli dèi e non condannato da essi. Aveva tentato di fare lo stesso anche con Lirno, ma ugualmente costui aveva intrapreso la strada sbagliata, finendo per perdersi definitivamente.

Quando ebbero finito di pranzare, i dardanidi concessero il loro posto alle donne della casa, le quali si accomodarono e iniziarono a conversare tra di loro, mentre gli uomini già si preparavano per la cena di quella stessa sera.
Enea aveva raggiunto la sua stanza e si spogliò, una volta dentro, della tunica frigia, rimanendo completamente nudo. Prese dall'alabastron*[5] gli oli profumati e unse il suo corpo completamente, perdendosi in quella piacevole sensazione che lo investiva da capo a piedi. Poi indossò un chitone lungo, di lino rigorosamente bianco, proveniente dai campi della Dardania che erano parte integrante del regno di suo padre, e che sua zia Teano tesseva con ampia maestria. Gli entrava perfettamente, lasciava addirittura intravedere i sandali dai finimenti dorati che calzava, e lo cinse con una fibbia preziosa sulla spalla sinistra. Lasciò che i capelli ramati, unti anch'essi, assumessero lucidità grazie ai raggi solari che filtravano dall'ampia finestra che lasciava sempre aperta, e alla quale si appoggiò poco dopo. Le fulve ciocche si stavano vistosamente arricciando, e gli occhi blu furono attraversati da una scintilla di malinconia che si rifletteva come un'immensa pozza d'acqua alla vista del sole. Stava rivivendo, in quell'istante, tutti i momenti della sua infanzia e della sua adolescenza: i giorni trascorsi a cacciare in compagnia di Seresto e di Lirno; l'avventura ad Arisba, sull'isola di Lesbo, con Acate, Mnesteo e Asio; le chiacchierate notturne e clandestine tenute all'oscuro della reggia di Priamo con la sua Creusa... era come se su di sé sentisse il peso di ogni cosa, che era il prezzo da pagare affinché potesse vivere una felice esistenza coniugale. Dopo il matrimonio, sapeva benissimo, sarebbe asceso al trono di Dardano, e ciò gli avrebbe comportato maggiori doveri e responsabilità, l'assunzione di nuovi impegni... si domandò se mai sarebbe stato all'altezza di suo padre o del grande Assarco, suo avo, se mai avrebbe soddisfatto le esigenze di tutti... per ora non poteva saperlo, e per il futuro, beh, aveva ancora un po' di tempo per pensarvi.

Quando poi si voltò verso il suo giaciglio, notò che su di esso era stato riposto qualcosa... qualcosa di parecchio vistoso e appariscente, ma allo stesso tempo sobrio. Si avvicinò e scrutò con grande sorpresa un anello, in cui predominava, incastonata al centro, una luminosa gemma blu. Un diamante, forse? Non essendo esperto di minerali, Enea non poteva saperlo; tuttavia, si stupì di come fosse giunta lì: un intervento divino o qualcosa di molto somigliante?
«Enea!» a interromperlo dalla sua meditazione fu Ippodamia, «Enea, nostro padre ha incaricato un servo affinché portasse al carro tutti i doni richiesti. Fortunatamente, sia io che Ilia abbiamo terminato in tempo la bellissima veste intessuta per la tua futura sposa.»
«Perfetto, ὧ ἀδελφή*[6]», rispose Enea, sorridendole.
«Qualcosa non va?» la donna, che era eccezionale nel capire i suoi fratelli, si era accorta del tono dolcemente malinconico che contraddistingueva la voce del ragazzo.
«No, va tutto perfettamente, sorella», rispose, cercando di ricomporsi e impettirsi, da darle l'idea di qualcuno che era sicuro di ciò che stava andando a fare, senza inutili preoccupazioni.
«Avrei tanto desiderio di fidarmi, ma non ti vedo convinto... e, da parte mia, credo che non sia il matrimonio a turbarti tanto. Di cosa hai paura?» insistette, sempre con quella melodica voce che pareva invitarti a confessare le cose, esse fossero oscuri segreti o gioie occulte.
«Del fallimento, Ippodamia. È una vita che tu e Alcatoo mi educate a divenire un ottimo soldato, ma... ho come la sensazione che da uomo coraggioso potrei trasformarmi in un inaccettabile codardo», dichiarò infine. Distolse lo sguardo da quello della sorella maggiore e lo riportò verso i campi, guardando nuovamente oltre la finestra.
«Non è da quelli come te divenire imbelli e codardi, Enea: sei uno dei giovani soldati più potenti dell'intera Troade, e non lo dico perché sono tua sorella. Sei riuscito ad affrontare e con armi, e con diplomazia la popolazione di Lesbo, trasformando in un avamposto strategico la capitale dell'isola. Sei tu ad aver condotto tutti i soldati verso la vittoria, tu che hai ribaltato la situazione trasformando un'inevitabile disfatta in un successo vantaggioso. Per non parlare dei tornei vinti, delle cacce lungo il monte Ida... non vedo come tu possa nuocere a Dardano se hai sempre pensato solo al suo bene,» cercò di fargli capire la bellissima Ippodamia, che avvicinandosi gli afferrò una spalla e riportò i suoi occhi in parallelo con i propri. La particolarità di essi era proprio l'eterocromia: uno verde, l'altro blu come la volta celeste notturna, mentre le pupille avevano come la capacità di dilatarsi e restringersi a loro piacimento, quasi volessero leggerti dentro. E in quel momento, l'ottima sorella maggiore di Enea stava provando a fare proprio quello, per carpire da quei glaciali diamanti i più oscuri segreti del fratello minore.
«Mi sei di conforto, come sempre...» era probabile ch'egli addirittura temesse di andare avanti in quella conversazione, e non voleva mentire – non a se stesso, almeno – e pensare che andasse tutto bene. La sua paura aveva un nome, ed era Priamo: il suo futuro suocero, severo come e quando voleva, e soprattutto con chi voleva, gli incuteva più timore di tutti. Proprio in virtù dei suoi successi, Enea non nascondeva che il re di Troia non l'avesse mai lodato, così come mai avesse espresso disprezzo nei suoi riguardi. E, in alcuni casi, l'indifferenza sapeva addirittura essere peggio della repulsione: il non dire niente all'altro, l'essere così insulsi e insipidi per lui era più ripugnante dell'odio stesso. Sperò almeno di potergli comunicare qualcosa, di essere per lo minimo accettato. Il resto, lo avrebbero visto poi...

«Sbrigatevi, fratelli, dobbiamo muoverci!» esclamò vivacemente Ilia, distogliendoli dal loro discorso. Ippodamia spostò la sua mano ben curata sul viso liscio del fratello, sorridendogli col contegno di una madre.
«Quando nostro padre incaricò me e Alcatoo di crescerti ero appena una fanciulla, e tu un infante di cinque anni. E guardaci ora: mi superi in altezza e sembri un giovane, fortissimo uomo. Quando ti vedrò con un figlio tuo tra le braccia, oh, non potrò impedire alle lacrime di sgorgare incessanti sul mio viso. Sei cresciuto, devo ormai capacitarmi del fatto che non sei più il mio bambino...» sussurrò. Stavolta malinconica era divenuta lei, e le lacrime di cui parlava avevano impregnato di velata tristezza la sua voce abbassata.
Enea concluse quel bel colloquio con un abbraccio e, riprendendo l'anello da cui era stato attratto poco prima tra le mani, si diresse verso il carro, dove l'auriga e il resto della famiglia li attendevano. «Finalmente,» sbuffò Elimo, spazientito, «Acate, puoi partire!»
«Acate?» domandò Enea, prima tra sé e sé e poi al giovane stanziato lì dinnanzi sul puledro, «Acate, vecchio mio! Sei tornato da...»
«Abido,» lo precedette costui, «sono tornato proprio da lì ieri pomeriggio: Asio, che governa anche su quella città, mi ha concesso il ritorno a Troia. Ma non potevo non passare per Dardano prima!»
Acate era, sin dai tempi dell'infanzia, il migliore amico di Enea. Avevano condiviso insieme molte avventure, ma col tempo le loro strade si erano perse di vista, la prima andando verso il nord della Troade, nel versante più vicino alla Grecia, e la seconda restando lì dove erano le sue salde radici, a Dardano.
«Già, Abido,» gli fece eco Enea, mentre il suo compagno partiva alla volta di Troia.
«Allora è vero che sposerai Euridice, le voci che mi erano giunte sono confermate,» riprese Acate, più per approfittare di quel momento per parlare al suo compagno che per altro.
«Sì, è vero», asserì il dardanide con determinazione.
«Vorrei dire di essere contento, ma sai benissimo che mentire non è nelle mie specialità,» ammise da parte sua l'altro, «non ho mai compreso quel che tu vedessi in quella ragazza così... così virile nei modi e nei sentimenti.»
«Ci vedo il mio futuro!» esclamò, rivolgendo lo sguardo verso il cielo per poi portarlo su Elimo ed Echepolo che, scuotendo il capo, gli stavano dando dello sdolcinato, «Ma dimmi di te, Acate. Cos'hai fatto durante quest'ultimo anno?»
«Ho scritto e firmato accordi, delegato ambasciatori, stipulato leggi e rapporti... insomma, ho allenato le mie mani a ciò che il buon vecchio Antenore ci ha sempre sottoposti: la scrittura, a dirti la verità, è stata per tutto questo tempo la mia più grande passione. Non nego, tuttavia, che mi siano mancati i cavalli. Perciò ho preteso di accompagnarvi io,» rispose il ragazzo, portando all'indietro quella matassa di capelli neri che aveva. Proferite quelle parole – a cui forse Enea, colto da un momento di distrazione, non aveva dato ascolto – il viaggio proseguì in silenzio, e poco dopo gli zoccoli dei cavalli raggiunsero le porte Scee, l'entrata principale della città di Troia. Non appena vi furono dentro, gli Anchisiadi e in  particolare il festeggiato, osservarono alcuni bambini passeggiare allegri, mentre rubavano mele a modesti mercanti, i quali a loro volta li rincorrevano per acchiapparli.
Erano i figli dei piccoli bottegai che lavoravano giornalmente a Troia, e che, in assenza di attività più eclatanti e impossibilitati dal diventare anche solo garzoni di qualche nobile, si divertivano a prendere in giro i colleghi dei loro padri con quelle marachelle che a Enea trasmettevano forte vitalità.
Dopo di loro, donne anziane che filavano la tela nei piccoli vicoli della città assieme a ragazzette che non rinunciavano alla buona dose di chiacchiere civettuole si fissarono a guardare l'ingresso della famiglia reale dardanide a palazzo.
«Guardate!» esclamava qualcuna.
«È il principe Enea!» diceva un'altra.

Le voci non poterono che accavallarsi e destare ancora più stupore mentre, sommessamente, raggiungevano la finestra della stanza posta lì dove il sole sorgeva, a oriente: Creusa ivi udiva tutto, e spalancò gli occhi quando venne a conoscenza del fatto che Enea stesse giungendo là proprio per lei. La gioia provocò un movimento involontario del suo busto percosso da forti emozioni, tanto che Iliona, la sorella gemella che la stava preparando, fece una smorfia spazientita e allontanò il pettine dalla chioma della futura sposa.
«Creusa!» la rimproverò – ormai anche in famiglia avevano preso a chiamarla con quella sorta di epiteto lusinghiero – «Possibile mai che non sai stare un minuto immobile?»
«Scusa, sorella,» sussurrò, arrossendo vistosamente. Calò un silenzio a dir poco imbarazzante, e le due non poterono evitare di scoppiare in una forte risata fragorosa.
«È l'emozione, comprendo perfettamente,» concesse infine Iliona, «alle volte gioca brutti scherzi e finisce per innervosire le persone. Eppure, è altresì bellissimo provare quel piccolo solletico alla pancia quando si sta per sposare la persona che si ama.»
«Tu l'hai mai provata?» chiese curiosa la sorella, alzando gli occhi verso il volto così simile dell'altra.
«Credevo...» sussurrò Iliona, «le mie emozioni si sono presto trasformate in merce di scambio... ma non importa! D'altra parte c'è Deipilo a migliorare le mie giornate... dovresti vedere quanto è cresciuto, tuo nipote!»
Creusa annuì, comprendendo perfettamente la situazione che stava vivendo la gemella: da due anni a quella parte, difatti, era sposata con Polinestore, il re del Chersoneso. Persona potente e dalle qualità straordinarie, ma molto, molto avara... l'unica gioia che aveva portato alla sua vita era il figlioletto che la rallegrava ogni giorno, e che poco distante da dove le due stavano conversando riposava nella sua culla.
Per la verità, la donna aveva sempre provato forti sentimenti per suo cugino Mimante, figlio di Teano e del suo primo marito, e che quello stesso giorno, in virtù del banchetto che si sarebbe tenuto a palazzo per Enea e Creusa, sarebbe giunto con gli altri fratellastri.
«E dimmi, sorella,» ricominciò Iliona, «sarebbe scontato chiederti se sei contenta, ma... cosa ti ha legato così tanto al giovane principe di Dardano?»
Creusa sospirò, ripercorrendo con la mente i bei tempi in cui soleva trascorrere le sue giornate assieme al dardanide, tra le praterie tipiche delle sue parti e nella stessa reggia. Enea amava di lei quella innata capacità di saper intuire immediatamente le cose, anche se appartenevano a un mondo di cui ella non faceva parte, così come Euridice riconosceva in lui i profondi ideali e valori morali su cui i suoi pensieri e le sue stesse emozioni si basavano.
«Ricordi quando Enea era scudiero di nostro padre, anni fa?» chiese allora a Iliona, la quale si posizionò accanto a Creusa e le poggiò una mano su una spalla.
«Sì, ricordo perfettamente,» rispose, quasi rimpiangendo quei tempi in cui non era vincolata da nessun accordo indesiderato.
«In quei quattro anni, lui e io legammo tantissimo: ero una fanciulla molto curiosa, e lui mi parlava di tutto quello che faceva assieme a nostro padre. Anchise lo aveva affidato a lui perché sapeva che così facendo sarebbe diventato un ottimo guerriero e poi un ottimo re. Ettore non mi parlava mai di ciò che imparava, mentre Enea era molto più aperto nei miei riguardi. Fu lui stesso a convincere coi suoi modi persuasivi mio padre, affinché potessi cacciare in compagnia delle sacerdotesse di Cibele sull'Ida, ed essere pronta sia per combattere che per fare ciò che mi spetta. Per il resto, i-io... io non lo so. Forse è scritto nelle stelle che dobbiamo stare insieme, forse la sorte ha per noi progetti più grandi di quel che ci aspettiamo...» più parlava, e più Creusa si rendeva conto di come vagheggiasse la sua voce, di come ripercorresse quei tempi in parte oscuri con una nostalgia che non le era mai appartenuta, e che in quel momento risuonava totalmente. Pensò ella stessa che tutto ciò fosse strano: stava per diventare la moglie di Enea e da un lato rimpiangeva la loro adolescenza. Probabilmente sapeva che il loro rango e la loro unione li avrebbero portati a scegliere al di là di ciò che erano le loro preferenze: ciò che era giusto, i loro doveri da sovrani, venivano addirittura prima delle loro percezioni di realtà.

«Euridice, Iliona!» a richiamare l'attenzione di entrambe fu la voce di Beroe, l'anziana nutrice che aveva allattato tutti i figli legittimi di Priamo e che ancora risiedeva a palazzo in qualità di balia dei più piccoli, «La regina ha richiesto la vostra presenza al piano inferiore.»
Le due annuirono all'unisono, sistemando i capelli com'era l'uso comune del tempo: Iliona corti boccoli raccolti una fascia, che riproducevano perfettamente la sua condizione di donna sposata; Creusa, invece, in lunghissime trecce che la stessa sorella le aveva realizzato poco prima, e che le ricadevano lungo la schiena come il manto di una leonessa.
Quando raggiunsero Ecuba, ella non poté che accoglierle entrambe con un sorriso, poggiando una mano sull'avambraccio della prima e una carezza sulla guancia della seconda.
«Figlie mie, sono davvero lieta che siate qui! Tu, Iliona, va' ad accogliere gli ospiti come già sai: sia Anchise con la sua famiglia che tua zia Teano sono arrivati alla reggia. Euridice, tu invece seguimi», intimò la madre, prendendola poi sottobraccio.
Già sentivano, di sotto, i convivali che bevevano gioiosamente il buon nettare di vino, e le risate sommesse degli uomini che motteggiavano tra di loro. Elimo, ad esempio, aveva appena preso la cetra e iniziato a intonare un canto poetico, addolcendo l'atmosfera con la sua melodica voce.

Iliona, Cassandra, Laodice, Polissena, Ippodamia e Ilia erano appartate in un'altra stanza con la sacerdotessa di Minerva e la sua unica figlia femmina, Crino, nell'attesa che la regina e il sovrano concedessero anche a loro l'accesso al banchetto festoso. Solo la venuta di Creusa poteva dare inizio al rito che avrebbe sigillato il fidanzamento con Enea, una promessa solenne pronunciata presso l'altare di Giove Ammone.
«Sei stata davvero ottima nell'accogliere tutte e due le famiglie, Iliona,» si complimentò sinceramente Teano, «sperando che tua sorella, una volta maritata, sappia fare lo stesso.»
Il tono della donna, dietro la severità con cui erano state pronunciate quelle frasi, nascondeva un profondo affetto celato da grandi pretese nei riguardi della nipote: in quegli ultimi due anni le aveva trasmesso ogni suo sapere, e sperava lei fosse in grado di applicarlo nella maniera più completa possibile, al fine di essere una moglie eccezionale.

Ecco che Creusa, accompagnata dalla madre, raggiungeva i presenti, e furono aperte le porte anche alle donne.
Tutti si voltarono a guardarla con stupore, dimenticando per un momento la ragazzina dalle forme e il viso acerbo per far spazio alla donna che invece stava dimostrando di essere. Enea, più di chiunque altro, fu ampiamente sorpreso quanto incantato dal vedere quella sorta di creatura mistica avvolta nel suo peplo vermiglio di pura seta, e dalla tunica di lino tessuta dalla grande Teano, che si proporzionava perfettamente a quel corpo esile. Adesso, più che in qualsiasi altro momento della sua vita, per lui diveniva una creatura eterea, e non più la fanciulla dal semplice viso di fiore e il carattere ribelle che aveva sempre conosciuto. Aveva imparato ad amare entrambi i lati di Creusa, perché sapeva che non esistevano maschere: sia quella parte più matura, che quella che conservava i tratti della giovinezza, le appartenevano totalmente.
Si elevava altissima rispetto alle altre ragazze lì presenti con lei, e spiccava per la sua bellezza persino su Laodice, solitamente considerata la più desiderabile di tutte le Priamidi.
Appena ella vide il promesso sposo mentre la guardava abbassò gli occhi, e la madre le prese la mano come per darle forza. Non appena poi ambedue ebbero il coraggio di fissarsi intensamente, allora annuirono: non c'era bisogno di ulteriori aggiunte superflue, quel che pensavano lo sapevano già.

Fu il re Priamo, che aveva appena incaricato un servo di scortare altrove i doni del dardanide, a interrompere quell'idillio, con una frase che spezzò immediatamente l'atmosfera calda e gradevole:«Ebbene, quest'oggi abbiamo l'onore di sigillare in via definitiva il matrimonio tra la mia figlia terzogenita e il principe di Dardano. Ch'ella, egli e suo padre mi seguano al tempio con la vittima sacrificale, tutti gli altri attendano qui il responso.»
Enea, Anchise e Creusa annuirono con decisione, dopodiché seguirono il sovrano verso gli altari sacri, dove si sarebbe tenuto l'importantissimo rituale del fidanzamento, quello senza cui il matrimonio mai avrebbe potuto avere luogo.
Ad attenderli v'era un sacerdote di nome Pantoo, il più importante a Troia quando si trattava della celebrazione delle unioni future, che presenziava al tempo di Apollo e a quello di Giove.
Altri delegati condussero il daino che Enea aveva ucciso quella mattina presso le are, come vittima sacrificale e necessaria affinché si fossero completati gli accordi per il matrimonio.
Sia lui che Priamo imbiancarono le proprie mani nella farina e poi nel sale, che sparsero sulle mense sicché gli dèi accettassero quell'offerta.
Anchise si occupò di mescere il vino e il miele in una coppa, il latte e l'acqua in altre due. Il sacerdote aveva appena iniziato a pronunciare le frasi e richiamare le divinità: Giove e Giunone per prime, Diana, Venere e Peitho*[7] immediatamente dopo. Sia Enea che Priamo impugnarono due affilati coltelli, quelli dalla lama sottile e tagliente, e li affondarono nel daino sporcando del suo sangue i pugnali, che furono immediatamente ripuliti. Quel gesto simbolico stava a significare, almeno da ciò che Creusa, immobile e incuriosita, vedeva, che il legame dei due sposi derivasse dal sangue stesso, dunque dalla vita. Ed effettivamente era così: mancavano solo le ultime tre azioni prima che quel patto venisse a compimento.
Anchise, in qualità di testimone da parte dello sposo, prese posto dietro Enea mentre a stento si reggeva in piedi sul suo bastone; di nuovo, Pantoo intimò a Creusa di spostarsi dall'altro lato, affinché chi aveva preso le redini della situazione – Enea e Priamo – potesse concludere il tutto.
I due si strinsero la mano in segno di alleanza matrimoniale, e in quel momento a Enea parve di rivivere l'istante in cui, il giorno ch'egli ebbe terminato il suo addestramento, ancora una volta incatenava le sue dita a quelle del monarca troiano.
Solo dopo quell'atto, intimarono Euridice di avvicinarsi, ed ella obbedì senza alcuna esitazione. Alzò lo sguardo verso gli occhi di Enea, e poté vedere che da una tasca traeva un bellissimo anello, d'oro e diamanti, che era lo stesso che egli aveva ritrovato sul suo letto inviato da qualche mittente misterioso. Lo infilò all'anulare della sua sposa, e i due ebbero, sorprendentemente, il permesso di baciarsi, concludendo il loro fidanzamento col tocco delle rispettive labbra.
Fu un qualcosa che permise l'un l'altra di rilassarsi ancor di più di quanto si aspettassero, i corpi e la bocca irrigiditi divennero immediatamente più caldi e morbidi, ed entrambi sembrarono dimenticare tutto il resto, persino la presenza dei propri padri – forse quella la cosa che determinava su tutte le altre il leggero imbarazzo –.

Successivamente, una volta che i loro corpi ritornarono a essere singoli individui presenti nello spazio, ella gli afferrò l'avambraccio e vi si strinse convulsamente, come a voler essere protetta e a non vedere l'ora, in cuor suo, di passare alla sua famiglia e al nuovo viaggio che insieme avrebbero intrapreso. Furono ricondotti al banchetto e riaccolti con maggiore entusiasmo; Creusa fu portata dalle altre fanciulle, Enea, invece, si aggregò a Ettore e ai compagni lì presenti, che insieme continuavano a bere e a scherzare.
«Oh oh!» disse a un certo punto Agenore, non senza una nota di invidia, «Ecco che con la sua amabile presenza arriva il dardanide Enea!»
Costui, rispondendo con un sorriso beffardo, prese posto accanto a Ettore cercando di tenere ben lontani individui poco piacevoli, come lo stesso Agenore era: secondogenito di Antenore e Teano, aveva sempre avuto un debole per Creusa e serbato a Enea quell'invidia maligna che nemmeno col suo matrimonio con una principessa frigia era riuscito totalmente a colmare.
«È andato tutto bene?» gli chiese sottovoce Ettore, versandosi un po' di vino nel calice e sollevandolo in direzione di suo padre Priamo, che fece capolino.
«Tutto bene,» rispose sincero il cugino, «forse quello che ci è andato peggio è stato un tuo amichetto cervide, il cui sangue è servito per dare compimento al rito.»
Il troiano lo fulminò con lo sguardo: detestava quando Enea inseriva nelle sue parole quella sorta di "scherzosa ironia" indirizzata ai suoi insuccessi. Proprio perché non propenso ad ammetterlo, Ettore era ritenuto, alla stregua dei suoi fratelli e sorelle, una persona molto orgogliosa, e il cui onore era considerato intoccabile. Fortuna che sapeva anche che Enea non facesse sul serio, e che in ogni caso provava stima nei suoi riguardi; stima ricambiata dal Priamide, che vedeva in Enea un uomo diverso da lui ma altrettanto valido, perfetto per sua sorella.
Aveva sempre considerato Creusa come una fiamma ribelle e spensierata che ancora brillava nella sua fresca gioventù; si sarebbe reso conto, in tempi successivi a quel giorno, che in realtà la fiamma era Enea, ed ella il vento che cercava di acquietarla, piuttosto che alimentarla. Sapevano benissimo che la fiamma incontrollata generava il devastante incendio.

Quando Elimo terminò il suo brano con la cetra, tutti accolsero con un applauso sincero quell'esibizione sublime: persino Teano, restia a dispensare complimenti, dovette cedere al fascino che esercitava su di lei la voce del fratello di Enea. Si levò dalla postazione rialzata su cui era posizionato e si avvicinò al fratello minore, che continuava a battibeccare con Ettore riguardo al daino di quella mattina. «È davvero ottimo questo ricevimento,» si rivolse, stavolta, al cugino, «e poi non avevo mai visto tante persone apprezzare qualche mia melodia.»
Ettore si frappose fra lui ed Enea e gli mise una mano sulla spalla:«Mio carissimo Elimo, sappi che invece qui, a palazzo, tutti noi apprezziamo la tua voce. Specialmente Cassandra», e, parlando parlando, i due se ne andarono a passo lento, mentre le loro voci, all'orecchio di Enea, divennero piccole eco lontane. Poté scorgere attentamente che le gote del fratello maggiore si arrossirono: non era passata inosservata, difatti, la cotta che egli aveva da sempre per la giovane profetessa; tuttavia, essendo egli prossimo a divenire sacerdote del tempio di Apollo a Dardano, non poteva apertamente dichiarare le sue più segrete passioni.

L'attenzione per quei piccoli gesti, che sotto sotto fecero sorridere il ragazzo dai capelli vermigli, lo distolsero dall'attenzione generale: non si era accorto, infatti, che suo padre Anchise e il resto della famiglia avevano fatto ritorno a Dardano, e che i Priamidi stavano rincasando oppure rientravano nelle proprie camere. Cassandra e Polissena, che tra le fanciulle di quella casa erano le minori, si premurarono di spegnere tutti i lumi presenti, ed Enea dovette contare sul semplice aiuto della luce lunare per andare sui propri passi. Poiché la sua famiglia, visibilmente ubriaca, era salita sul carro e probabilmente Acate era già partito, il giovane dardanide avrebbe dovuto necessariamente prelevare un ulteriore cavallo dalle scuderie troiane, a cui, fortunatamente, era avvezzo. 
Attraversò nel silenzio più totale i corridoi della reggia, alle volte imbattendosi in gemiti e sospiri emessi nel buio della notte – proprio come era solito il loro padre, anche i figli di Priamo, e in particolare quelli non sposati, venivano allettati dalla presenza delle concubine – finché non scorse da lontano una figura femminile che, quatta quatta, entrava nella propria stanza.
«Creusa?» domandò dapprima tra sé e sé, non accorgendosi di aver pronunciato, pur con un piccolissimo filo di voce, il suo nome.
«Enea, non dovresti essere a casa? È tardi, sai?» lo riprese lei, che sobbalzò non appena si sentì involontariamente chiamare.
«Mi dispiace di averti turbata...» sussurrò, «avevo un attimo perso la concezione del tempo e mi sono ritrovato solo nella stanza. Sai se c'è qualcuno alle scuderie?»
«A quest'ora nessuno,» rispose lei, «ma potrei portarti io e darti la mia cavalla più veloce, Ete.»
«Non vorrei qualcuno ti scoprisse e ti punisse a causa mia,» confessò Enea, «dunque vi andrò da solo, pur conservando nella mente il suggerimento sul corsiero che dovrò scegliere.»
Ella gli rivolse un sorriso, lusingata da tanta premura, poi gli fece cenno con una mano di avvicinarsi, quasi a volerlo salutare un'ultima volta prima della cerimonia che li avrebbe resi, di lì a qualche settimana, marito e moglie. Non esitò, e le venne di fronte a passo svelto ma al contempo cauto.
«Chi vuoi che mi scopra?» chiese quasi retorica lei, «qui o dormono o scopano.»
«Euridice!» la richiamò, pur non riuscendo a trattenere una lieve risata. Dopodiché imitò la voce grossa di Priamo e continuò:«Non è da principessa di Troia quale sei usare tali vocaboli scatologici e indecorosi.»
Stavolta a ridere fu lei, la quale, allegramente, gli diede un buffetto sulla guancia per poi ritornare seria, almeno apparentemente.
«Bello questo quadretto,» ammise, «tuttavia, non voglio che mi chiami più Euridice: Creusa va benissimo.»
«Davvero preferisci che ti appelli così piuttosto che col nome che ti fu dato alla nascita?» chiese stupefatto Enea.
«È... come dire, ciò che di più unico mi rende a questo mondo», affermò la giovane, «nessuno mi ha mai assegnato un epiteto più bello e nobile. Nessuno eccetto te.»
Il dardanide le passò una mano sul volto e le sorrise dolcemente, trattenendo a malapena tutto ciò che aveva da dirle, non riuscendo a godere appieno dell'ineffabilità di quel momento.
Scostò una ciocca bionda di capelli che fuoriusciva dalle trecce e la portò dietro il suo orecchio, sicché potesse meglio guardarla nel volto che, seppur fosse notte, spiccava luminoso, velato da uno strato di sottile lume stellare.
«Perché tu per me sei davvero una regina, e non ti sostituirei con nessuna», bisbigliò, lasciandosi trasportare dal sentimentalismo.
Fu lei a interrompere quel susseguirsi di frasi, sporgendosi verso di lui e lasciandogli un leggero bacio sulla guancia, del tutto simile al battito d'ali di una farfalla o di una colomba. Era diverso, più spensierato e leggiadro rispetto a quello che si erano dati prima presso l'altare di Giove. Lì Enea riuscì proprio ad avvertire un bisogno, che era lo stesso che si manifestò in lui quando, poco dopo quel sottilissimo gesto compiuto da Creusa, si fiondò sulle sue labbra e fece sì che fossero premute contro le proprie. Quella volta, al contrario, il contatto tra i due fu rude e passionale, privo di ogni tenerezza e carico di un inaudito e proibito desiderio.
Quando si staccarono, Enea distolse immediatamente il suo sguardo dagli occhi di Creusa, e sospirò smaniosamente. «Scusami, non avrei dovuto...»
Ella allungò una mano verso il suo volto e ammorbidì con una carezza la gota pallida del ragazzo.
«Fammi venire con te, stasera,» gli propose, mostrandosi per nulla contrariata dal bacio di poco prima. Il dardanide spalancò gli occhi, e scosse il capo velocemente più per comprendere meglio ciò che l'amata gli aveva appena detto che per una secca negazione.
«Sei forse impazzita o hai perso il senno, Creusa? Per gli dèi... e se...»
«E se niente, Enea. Io lo voglio, e sono certa che lo vuoi anche tu», lo interruppe, imponendo la sua voce su quella del ragazzo, che ancora continuava a non comprendere.
«Creusa, io non...»
«Lo vuoi o no?» lo sottopose allora a una scelta. Gli prese il volto anche con l'altra mano e lo costrinse a guardarla negli occhi senza perder di vista il loro barlume di desiderio. Solo dopo qualche istante, Enea annuì.
«Sì,» asserì con decisione, «sì, lo voglio eccome.»
Si astenne, vista quella piccola dialettica, dal chiederle quale fosse il motivo per cui, al tempio, si fosse così stretta a lui: dopo quello scambio di corpi e battute aveva inesorabilmente capito quale fosse il suo desiderio, ed egli aveva realizzato di condividerlo totalmente.

Corsero verso le scuderie e raggiunsero la cavalla preferita di Creusa, Ete, sciogliendola dalle catene e salendovi poi in groppa: la più grande fortuna che entrambi avevano era proprio il fatto che le stalle dei cavalli si trovassero a confine con la prateria dardanide, in modo da passare inosservati.
«Creusa, va tutto bene?» le domandò il giovane, non appena ella salì sulla schiena della giumenta.
«Perfettamente,» disse la ragazza, che strinse le spalle di Enea e si aggrappò a lui per reggere la velocità dell'animale.
Poi partirono: Ete scattò come un fulmine e si diresse laddove Enea la stava indirizzando, e quando ivi raggiunse, presso una grotta umida immersa nel bosco e che il ragazzo aveva per rifugio segreto, fu legata a un albero e tenuta lì sino al mattino seguente.
I due, che per l'ardore giovanile da cui erano caratterizzati mi inducevo a definire "amanti", non appena arrivarono dove avevano desiderato furono liberi da tutti i vincoli, obbligati solamente a essere chi erano, senza barriere. L'incendio era scoppiato poiché c'era stata la scintilla; tuttavia, piuttosto che distruggere, esso creava la vita, e alimentava la passione all'interno di quei due innamorati dissennati.
Poco fuori la grotta, colti da un'inarrestabile foga, unirono le loro labbra sino a respirare qualsiasi sospiro e ansimare di tanto in tanto, mentre arretravano vicendevolmente verso la caverna. Persino un fulmine scagliato da Giove non sarebbe stato in grado di separarli.
Crollarono sul terreno, lei sopra di lui, ed egli, che non amava arrendersi così facilmente, la spinse al di sotto con un gesto avventato e celere. La inchiodò al suolo e le impedì qualsiasi movimento, tanto che i suoi calci e le altre movenze non furono che vani tentativi di divincolarsi.
«Ἐγών ἄρχω*[8]», dichiarò solennemente il giovane.
«Questo lo dici tu», senza nemmeno rendersene conto, Creusa gli si strusciò contro, come a comunicargli che avrebbe voluto averlo dentro di sé il prima possibile.
Enea, a cui stuzzicarla quasi piaceva, comprendendo il suo desiderio si decise appositamente a farla attendere ancora un po', mentre con naso e labbra percorreva il collo della fanciulla, regalandole brividi di sottilissimo piacere.
«Ti detesto,» gli rinfacciò lei; poco dopo, entrambi soffocarono una risata nelle proprie gole.
«E io ti amo,» gli rispose allora lui, a tono, «dunque? Che nome mettiamo a questa situazione?»
«Evitiamo di darle un nome...» rispose Creusa, «agiamo, piuttosto.»
Maliziosa nello sguardo, prese a slegare dalla fibbia il suo chitone e lo mise da parte, ritrovandoselo nudo dinnanzi a sé. Anche lui procedette nel levarle il peplo e la tunica, rivelando le sue parti più intime, che non poterono non farlo impazzire.
Affondò il viso nei suoi seni e le si donò completamente, finendo per creare un varco nelle sue gambe attraverso cui si sarebbe unito a lei nel modo più profondo.
Quando, dopo una breve preparazione mentale, entrambi annuirono all'unisono, allora Enea capì che era il momento adatto: divennero come una cosa sola, esseri uniti simili ad androgini che ritornavano al loro stato originale. Spinte lunghe e misurate, dolci a modo proprio, permisero ai due amanti di godere di quell'amplesso, finché, stanco, Enea non scivolò al fianco di Creusa, abbracciandola da dietro. Le posò un leggero bacio tra i capelli e strinsero in una presa salda le loro mani, desiderando, insieme, che quell'intreccio durasse in eterno. 

     NOTE:

1.     L'età dell'oro, ovvero l'età di Saturno, è un periodo mitologico che viene addirittura prima del dominio degli dèi. In quell'epoca tutti stavano bene, e non c'era bisogno del lavoro perché la terra produceva da sé. È inteso anche come il paradiso terrestre mitologico.
2.     Assarco fu il primo re di Dardano intendendola come città a sé stante: prima, Dardano e Troia erano sotto un unico re; poi, Troo, il re dell'epoca, divise le terre fra i figli maggiori. Assarco ebbe Dardano, Ilo fondò Troia. I dardanidi, da quel giorno, si dedicarono prevalentemente alla transumanza.
3.     È un nome antico, ma tutt'oggi usato, per indicare il daino delle steppe dell'Asia Minore. Damma è un suo sinonimo.
4.     Il Symposium è un nome tecnico per indicare un particolare tipo di banchetto, che, generalmente, si teneva fra le famiglie dei ricchi.
5.     L'Alabastron è un recipiente in alabastro, da cui prende il nome, in cui gli antichi riponevano i doni profumati.
6.     "o sorella."
7.     Divinità del seguito di Venere che indicava la persuasione.
8.     È scritto in greco epico, e significa "Comando io".

𝐃𝐄 𝐕𝐈𝐑𝐈𝐒 𝐄𝐓 𝐌𝐔𝐋𝐈𝐄𝐑𝐈𝐁𝐔𝐒 𝐂𝐎𝐍𝐒𝐄𝐂𝐑𝐀𝐓𝐈𝐒 𝐈𝐋𝐈𝐔𝐌 ✓Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora