Sapete, gli Elven sono una razza molto particolare. Ci tengono particolarmente ai bambini, di qualunque razza siano; dicono che un bambino ben curato è un investimento, sia come manodopera che come leale guerriero. Infatti, quando ci portarono alla colonia Elven su Nuova Delwi'ii, un pianeta porto nella galassia Nibiru, la prima cosa che fecero fu pesarci, misurarci, controllare le tabelle di crescita (perché, essendo i più antichi ed evoluti, gli Elven conoscono alla perfezione ogni razza che esiste nell'Universo), e stabilire in quale stato di crescita e nutrimento eravamo. Ciò nonostante, non ci alimentavano abbastanza, spesso eravamo lasciati da soli, e non si interessavano di sapere cosa facevamo durante il giorno, o se dormivamo.
Dall'hangar ci trasferirono in una grande casa fatiscente: una casa di addestramento travestito da orfanotrofio galattico. Non mi aspettavo un luogo così grande e pieno di creature. C'erano almeno dieci razze diverse, e a malapena ne conoscevo...beh, una. Non avevo mai avuto l'opportunità di vedere altre razze aliene, figuriamoci di conoscerne i nomi. Lì eravamo tutti orfani, rubati dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dai nostri pianeti; potevamo essere una grande famiglia. Ma, come in qualsiasi orfanotrofio, già dal primo giorno si formarono le alleanze. Tre ragazzi e una ragazza Zeil si unirono a due Selii. Quattro dei ragazzi della nostra città cercarono un'alleanza con altri tre Selii. Due bambine Kelmyn fecero alleanza con quattro grossi ragazzi Zypzorn e due bambine umane; una Golorii e una Pfaffzazzeim si unirono a tre ragazze umane. Quattro Kylorn, sette Flobnheim e cinque Soromii formavano sei gruppi diversi, e una quindicina di ragazzi umani si divisero un po' in ogni gruppo. Noi tre e Ka'orii decidemmo di non formare alleanze con nessuno. Lei si isolò, non si avvicinava a nessun gruppo, ma ci osservava con i suoi occhietti neri. A volte, avevo la sensazione che volesse avvicinarsi, ma non lo facesse per paura. Ma osservava, e capiva, così come capivamo noi, che allearsi a qualcuno era diventare lo zerbino di qualcuno più grande. I Selii esigevano una tassa per la loro protezione, che spesso si traduceva in stomachi vuoti per gli altri. Gli Zypzorn usavano i loro "alleati"per avere vestiti puliti e stanze sistemate; erano, in pratica, il personale della pulizia. Ka'orii guardava i suoi connazionali, e ogni tanto faceva dei gesti. Noi, dal nostro canto, osservavamo tutti, ma senza dire niente. Non avevamo altro che noi stessi, e non sapevamo se saremmo stati in grado di difenderci se qualcuno volesse aggredirci.
La scuola iniziò tre giorni dopo. Eravamo tutti inseriti nello stesso salone, seduti a terra, senza materiale di nessun tipo. I professori cercavano di insegnarci il linguaggio Elven, le tecniche e materiali di costruzione, i diversi tipi di arredamento, metodi e prodotti per pulizia; ci stavano preparando per le mansioni quando saremmo diventati loro schiavi. Non facilitavano in nessun modo la comunicazione tra razze, perché sape¡vano che comunicare tra noi ci avrebbe permesso di ribellarci; spesso ci chiudevano in stanze diverse per non farci parlare con gli altri.
L'inverno si fece crudo, e non essere controllati diventò un vantaggio. Ovviamente, in un orfanotrofio che si degni di essere chiamato "incubo per i minorenni che ci abitano" non esiste la benché minima nozione di riscaldamento. Quello nostro era in gara per ricevere il premio all'orfanotrofio più da incubo nell'universo, quindi non solo non aveva riscaldamento, ma aveva anche finestre rotte da cui entravano gli spifferi più freddi della galassia. I professori non volevano venire a darci lezioni, nessuno veniva a chiudere le porte della stanza, e tranne che per i due pasti al giorno eravamo lasciati allo sbando. Le alleanze cominciarono a guerreggiare tra di loro in piccoli scontri per cibo, acqua, letti lontani dagli spifferi o solo per guadagnarsi il rispetto degli altri. Le zuffe dovevano essere nascoste, perché se ci scoprivano ci lasciavano senza mangiare. Più di una volta mi proposi di parlare con gli altri, ma non riuscivo a comunicare. Volevo proporre di creare un'unica alleanza, per cercare di scappare da quel luogo. Ma quando mi avvicinavo agli Zeil, mi ignoravano; quando volevo parlare con i Selii mi deridevano; gli Zypzorn mi guardavano senza dire niente, e i Golorii e Kylorn facevano finta che io neanche esistessi. «Impara a parlare con loro», mi diceva sempre Cori. Ma le lingue non erano il mio forte.
Solo una cosa era assolutamente vietata: entrare nell'area mensa. Era l'unica parte del nostro castello riscaldata e curata, perché era proprio lì che lavoravano gli Elven. Danneggiare qualsiasi parte della mensa era sinonimo di guai. Non potevamo neanche far cadere un fagiolo a terra, perché ci prendevano dalle orecchie e ce lo facevano leccare dal pavimento. Se non fosse stato per la fame e perché quello era il posto più pulito dell'orfanotrofio probabilmente non l'avrei fatto. Non ci era permesso di avvicinarci mentre loro non c'erano, figuriamoci distruggere qualcosa. E fu proprio quello che successe durante una delle zuffe notturne per le poche coperte extra che c'erano.
I cinque Selii cominciarono a litigare tra di loro per l'ultima coperta. A rigor di logica, doveva essere della Golorii, ma nessuno si sarebbe permesso di dire una cosa del genere davanti ai Selii; se non disse niente lei che poteva riscaldarsi, nessuno di noi avrebbe parlato. Dopo alcuni spintoni, uno dei Selii prese un pezzo di legno di una finestra (Cori affermava che quella finestra era stata rubata a casa sua, perché era uguale a quella che era nella mansarda, ma che una notte era sparita) e minacciò gli altri. Uno dei suoi compagni gli prese il pugno e lo colpì per fargli lasciare l'arma, ma con poco successo. Il terzo caricò verso di loro, pronto a placcare quello armato, e con l'impatto il legno volò via dalla sua mano e contro l'unica finestra esterna della mensa. Un allarme acuto e assordante, quasi uno strillo, cominciò a suonare. Mi sentivo frastagliare i timpani, i Kylorn svennero dal dolore, i Flobnheim davano testate contro il muro. Solo le bambine Kelmyn sembravano non subire nessun effetto. Dopo alcuni secondi, sentimmo rumori nel piano di sotto, dove si trovava l'ingresso. Passi, porte, voci. Una squadra antisommossa di Elven apparve dall'altra parte della soglia, e in quel momento si fece il silenzio. Ci alzammo, alcuni più lentamente di altri. Gli Elven fuori dalla porta erano in tuta nera di uno strano materiale sintetico, con le facce vischiose dipinte di nero e grossi bastoni nelle loro mani con tre dita. Non avevo mai visto i piedi degli Elven; erano come mani, con lunghe dita articolate, ma senza pollici. Di solito quelli che ci servivano erano dietro i tavoli, e quelli che si spostavano per l'universo indossavano lunghe vesti.
Uno di loro entrò e fece un acuto strillo con tante S. «Chi è stato?» tradusse Corinne, e io la guardai. Non sapevo quando era apparsa accanto a me. Dall'altro lato, alla mia sinistra, Kele si era messo in posizione di battaglia, appoggiando il suo braccio sulla mia schiena.
Nessuno si mosse; di nuovo uno strillo con molte S. «Non potete nascondervi», tradusse di nuovo Cori. Come faceva a conoscere così bene la lingua degli Elven? Ma sopratutto, perché non me l'aveva detto? «Ultimo avvertimento. O rimarrete senza mangiare fino a quando non troveremo il colpevole. E raddoppieremo la punizione.»
Cori inghiottì. Le nostre razioni già facevano pena, ma erano meglio di niente. Puntare il dito era una sentenza di morte, ma anche non farlo lo era. O rimanevamo senza mangiare, o ci prendevano a botte. Dovevo pensare ai miei, a Cori, a Kele. Loro avevano bisogno di mangiare. Non ero il più grande di noi tre, ma ero deciso a proteggerli.
Stavo per puntare il dito al colpevole. Ma in quel momento mi tornarono in mente le parole di mio padre: "Alexander, a volte sacrificarsi per gli altri può essere l'inizio di una collaborazione. Può essere difficile, perché l'orgoglio ci dice sempre di non sembrare piccoli. Ma le particole di polvere possono entrare dove le pallottole no."
Mi guardai sulla spalla; Kele alzò le sopracciglia e annuì con la testa. Fu la prima volta che riuscimmo a comunicare senza parole. Poi feci un passo in avanti, alzai la mano e dissi l'unica cosa che avevo imparato in lingua Elven: «Sae.»
Le guardie scambiarono degli sguardi, ma non dissero altro. Mi legarono le mani dietro la schiena e mi portarono via. Riuscii a cogliere alcune scene prima di essere trascinato fuori. Le bambine Kelmyn si guardarono; gli altri umani erano sorpresi. I Kylorn erano ancora incoscienti; i Flobnheim scambiavano parole sussurrate. La bocca di Corinne era una linea, e Kele passò il suo braccio in modo protettivo sulle sue spalle; sentii una strana sensazione nello stomaco. Ka'orii mi fissava in silenzio, accovacciata in un sottoscala.
I Selii scambiarono sguardi superbi e fecero gesti sulle spalle, ma uno no. Quello che aveva lanciato l'arma omicida e aveva rotto il vetro si girò per guardarmi e il suo viso mutò in qualcosa, qualcosa di strano, qualcosa di simile a un sorriso di ringraziamento.
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Cronache di un conquistatore di mondi
Science FictionConquistare mondi non è così difficile come tutti pensano. È una questione di strategia: un esercito qui, un agguato là, una decina di soldati in punti strategici, e il gioco è fatto. Mica è complicato, o addirittura complesso. Persino un ragazzo di...