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Permettetemi di raccontarvi i miei inizi. Ogni storia deve iniziare dall'inizio. Altrimenti, che storia sarebbe? Raccontare la fine prima dell'inizio sarebbe uno spoiler. E noi conquistatori odiamo gli spoiler.

Nacqui sul pianeta Terra, Quadrante III, settore 8, zona 25, in mezzo a quello che i nostri antenati chiamavano l'Amazzonia. Mio padre era un soldato, un uomo alto, pallido e biondo venuto dal I Quadrante. Mia madre, nativa del settore 8, aveva la pelle come lo zucchero di canna e i capelli come la corteccia di un pino. Mio padre era il generale a capo quando l'esercito del settore 8 vinse la Battaglia del Fiume durante la Guerra del Sottomondo, e fu proprio dopo la battaglia che conobbe mia madre. Fu amore a prima vista, mi dicevano spesso. Mio padre era fiero di ciò che aveva raggiunto, ma non dal prezzo che aveva dovuto pagare per ottenerlo.

Mentre ascoltavo per la quattordicesima volta la storia della sua brillante vittoria, quella che portò alla conclusione della guerra del Sottomondo, capii cosa volevo essere nella mia vita. Fino ad allora, il mio più grande sogno era stato quello di essere un soldato, proprio come lui, per difendere il nostro pianeta dalla sempre più presente minaccia dei conquistatori alieni. Ma quando glielo confessai, fiero di me stesso, mi rispose: «Figliolo, la guerra è una brutta bestia. È peggio di un ladro, perché non ha lealtà; ruba da entrambe le alleanze e non si pente né restituisce ciò che ha rubato, neanche quando è stata fermata. Devi imparare a odiare la guerra, Alexander. E se devi lottare, non farlo con le armi, ma con l'intelletto.»

Pochi mesi dopo, scoppiò la Guerra del Sistema Solare, e fui abbandonato per errore durante l'Esodo. Ricordo quei momenti nei minimi particolari: le allarmi iniziarono a squillare; era un suono assordante, che quando si fermava ti lasciava un acuto ronzio nelle orecchie. Mio padre prese le nostre borse di sopravvivenza da sotto i letti, e tutti e tre ci avviammo verso l'hangar. Mia madre mi teneva per mano mentre correvamo in mezzo a fiumi di persone che si accalcavano una sull'altra per arrivare prima. Che senso aveva correre così? Mio padre diceva spesso che le navi d'evacuazione erano fatte proprio per contenere più persone di quante ce ne fossero nell'area. C'erano posti a sufficienza, nessuno sarebbe rimasto fuori. L'attacco era appena cominciato, non c'erano navi nemiche nell'atmosfera, le nostre vite —ancora— non correvano pericolo. Ma ciò nonostante, le persone correvano e urlavano, in preda alla frenesia.

Nonostante fossimo in grado di viaggiare in pochi istanti da una parte all'altra della galassia, gli esseri umani siamo sempre stati incivili e caotici. A volte penso che farsi conquistare da una razza superiore sarebbe stata una buona idea per il nostro pianeta. Magari alcune persone avrebbero imparato a essere più ordinate.

Mentre scappavamo, cercando di rimanere calmi in mezzo a quella follia, inciampai su una borsa che qualcuno aveva perso, caddi a terra e la mia mano scivolò da quella di mia madre. Non ero abbastanza forte per andare avanti, le persone passavano intorno a me, mettendo ogni volta più distanza tra me e la mia famiglia. Mia madre non poté andare contro la corrente, le persone la spinsero, e non ci fu niente che potesse fare. Sicuramente arrivarono nei pressi delle navi, e conoscevo bene la prassi: in caso di emergenza, chiunque fosse nelle vicinanze delle navi di salvataggio sarebbe stato portato via, niente eccezioni. Prima si salvano le vite, poi si cercano i parenti, questa era la regola. Alla fine, quando l'ultima nave se ne andò, rimasi da solo nelle strade, abbandonato. Nessuno venne a cercarmi; i miei genitori erano già lontani. Avevo appena otto anni.

I sistemi di protezione esosferici mantennero gli intrusi fuori dal pianeta ancora per alcune settimane, e in quel periodo vissi da solo, procurandomi cibo nelle case dei vicini, e poi nei supermercati chiusi del quartiere. Nessuno venne a cercarci, e non sapevo perché. A volte, la tristezza era troppo forte, mi sentivo abbandonato. Non sapevo neanche dov'erano le basi in cui mio padre aveva lavorato. Perché non era ancora venuto a prendermi? Come facevo a raggiungerli? Ma dovevo farmi forte, altrimenti non avrei potuto ritrovarli. Con quella speranza, mi addormentavo, e sognavo che li ritrovavo al mio risveglio. Anche se quello non successe mai.

Incontrai la prima delle mie fedeli, Corinne, pochi giorni dopo la partenza delle navi, e della perdita dei miei genitori. Aveva tre anni meno di me; era sola a casa non lontano dal supermercato dove avevo cominciato a ottenere le mie provviste. La sentii che piangeva mentre passavo davanti a casa sua, in mezzo a quel deserto che ora era la nostra città. Aveva fame, i biscotti e il pane erano finiti, e non aveva più niente da mangiare. Non sapeva come procurarsi altro cibo, ancor di meno cucinare. La presi per mano, la consolai, e cominciammo a parlare. Non volevo che rimanesse da sola, quindi le dissi di trasferirsi con me; potevamo essere una famiglia. Prese uno zainetto rosa e lo riempì di vestiti, abbracciò il suo orsacchiotto e mi prese per mano. Non ci siamo mai allontanati da allora.

Conoscemmo Ezechiele, soprannominato Kele, due settimane dopo. Avevamo finito tutto il cibo nei supermercati vicini, e ci spostammo verso sud in cerca di altre fonti di sostentamento. Non riuscimmo neanche ad arrivare alle porte, Kele ci bloccò il passaggio e minacciò di picchiarci se ci avvicinavamo. Era una specie di bullo che ci impediva di accedere al cibo. Una volta, sbarrò le porte e si rinchiuse all'interno, tutto pur di non farci entrare. Ma ne avevamo necessità, e la necessità è madre del genio. Per la prima volta, misi in funzionamento il mio intelletto, e creai un piano a mio avviso infallibile per far uscire Kele dal supermercato. Il piano, ovviamente, fallì miserabilmente. Imparai molte cose quel giorno.

«Faccia di topo», mi chiamò quando, sconfitto, mi dirigevo verso casa con Corinne afferrata alla mia mano. «Come ti chiami?»

«Alexander.»

«Sei stato coraggioso», mi disse. Da allora, il nostro rapporto diventò più cordiale. Condivideva il suo cibo, parlava di sé. Scoprii che era ben quattro anni più grande di me, suo padre era un pugile e sua madre era una sarta. Sapeva cucire abbastanza bene, e ci insegnò a difenderci. Dopo alcuni giorni, Corinne e io ci trasferimmo al supermercato, e poco a poco diventammo amici. Oggi, Kele è la mia mano sinistra.

Trovai l'ultimo dei miei alleati, Ka'orii, sette mesi dopo l'Esodo, quando gli Elven finalmente attraversarono la barriera protettiva e una delle loro navi atterrò nella nostra città. Appena cedettero i sistemi di protezione, cercammo un altro supermercato, un posto più grande, dove fosse più facile nasconderci. Non fummo gli unici ad avere quell'idea; anche altri ragazzi fuggirono lì. In totale, eravamo quindici. Ma ci raggiunsero, e nonostante i nostri tentativi di nasconderci trovarono tutti e quindici. Ci misero in gabbie in gruppi da sei, assieme agli altri ragazzi terrestri e ad altri ragazzi e bambini di razze che non avevo mai visto prima d'allora. Una dei ragazzi prigionieri era proprio Ka'orii, una giovane zeil.

Cori mi strinse forte la mano, e Kele ci abbracciò in modo protettivo. Eravamo piccoli, ma non soli. L'avventura stava solo iniziando.

Cronache di un conquistatore di mondiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora