Capitolo 7

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-Fai piano. Sta dormendo.
Bianca dormiva da ore, ormai, quando Camilla non aveva trovato altre commissioni da fare e si era rassegnata a tornare a casa. Il problema era che Camilla non sapeva che la sua presenza avrebbe potuto costituire serio motivo di disturbo per Bianca. Lei pensava di poterla aiutare, e invece l'avrebbe soltanto ferita.
Tuttavia, non poteva saltarsene fuori “ah, scusa, Cami, mi ero dimenticato, è da quando ho la sua classe che continua a ripetermi che è innamorata di me e che cerca ogni sistema possibile per portarmi a letto”. Avrebbe decretato la fine della sua esistenza felice. Tra le due, decise di sacrificare Bianca; dopotutto, dati gli ultimi eventi, era improbabile che si mettesse a pensare al suo fantomatico amore per lui, no?
Si ripeteva questo, ma in realtà la guardava con ansia crescente.
-Me la immaginavo proprio così – mormorò Camilla, come se stesse osservando un animale raro allo zoo dietro la sicurezza del vetro infrangibile – è... è invadente. Esteticamente, intendo. Guardarla è come prendersi uno schiaffo in faccia.
-E non la immagini quando parla – mormorò Emanuele di rimando. Silenziosamente, si avviarono verso la loro 

camera

.
-Che facciamo? - riprese Camilla – Dovrà tornare a casa, prima o poi. I suoi sanno che è qui?
-No, non lo sanno. Credo che non sappiano assolutamente nulla di quello che fa questa ragazza.
-Forse è un bene. L'ammazzerebbero. Sai, è così strano averla qui.
-Sì. È strano che ci sia un'altra persona in casa.
-Sì, ma proprio lei. Per me è una leggenda che prende vita.
-Capisco cosa intendi.
Bianca si svegliò un'ora più tardi, in un momento in cui Camilla era in cucina a preparare da mangiare ed Emanuele stava leggendo distrattamente il giornale seduto al tavolo. Se la ritrovarono sull'uscio della porta, con aria frastornata, che li guardava tutti e due con una mano tra i capelli cotonati.
-Scusate – mormorò – mi sono addormentata. Forse è meglio se torno a casa.
-Ti accompagno – Emanuele si alzò immediatamente.
-No, no. Mi porti solo fino alla stazione, poi a Padova prendo l'autobus.
-Be', ti posso accompagnare anche a piedi, non è lontana. Ti prendo il cappotto.
-Grazie.
Cercò di sbrigarsi, perché non era molto tranquillo a lasciare quelle due da sole. Fu così veloce che, quando tornò, Camilla stava ancora girando le melanzane sulla piastra e Bianca stava sbadigliando con vigore.
-Andiamo?
Bianca annuì e Camilla si voltò verso di loro, facendo un cenno di saluto. Le sorrise e sospinse delicatamente Bianca, che si stava vestendo, finalmente fuori dalla porta di casa sua.
Camminarono in silenzio per un po', mentre il respiro si condensava.
-Ma di notte dormi? - le chiese ad un tratto, curioso.
-Non molto – rispose lei – sono occupata in giro.
-Ah. Be', certo. Hai preso la pillola?
-Eh...?
-La pillola anticoncezionale. Quella volta l'hai presa di pomeriggio. Non l'hai dimenticata?
-Ah. La pillola. Sono nella settimana di sospensione.
-D'accordo, allora.
Rimasero in silenzio fino alla stazione. Una volta arrivati, Emanuele comprò un pacchetto di Fruit Joy; gliene offrì una, ma lei rifiutò.
-Questo è il binario. Ti faccio il biglietto alla macchinetta.
-Grazie.
Si allontanò, fece stampare un biglietto regionale, glielo porse. Il treno era già arrivato.
-Ti conviene andare dentro, qui fuori fa freddo.
-Sì, vado, vado.
Lo disse con un tono tale che si sentì in colpa. Ma non disse nulla.
Bianca salì sul treno, lo salutò con la mano, lo ringraziò e poi si allontanò senza voltarsi.

Non l'aveva mai vista così inespressiva. Ma dovette farci l'abitudine, perché, da quel giorno, Bianca cambiò completamente.
In classe non apriva bocca, né con i compagni né con gli insegnanti. Essendo stati informati della situazione da Emanuele, i suoi colleghi decisero di lasciarla per ultima in tutti i giri d'interrogazione, nella speranza che si riprendesse. Ma Bianca non dava cenni di ripresa.
-Sembra quasi mutismo selettivo – osservò un giorno Mariolina – ma la realtà è che parla con chiunque, solo che lo fa quando non può fare altrimenti.
-Possibile che una cosa simile l'abbia segnata così tanto? - intervenne Sonia, nervosa perché non riusciva a venirne a capo – Voglio dire, certo, è grave. Ma al punto di non parlare più e non muoversi dal suo banco per sei ore?
-E la preside? - domandò Emanuele – Ancora si rifiuta di dare spiegazioni? Ma sa qualcosa, alla fine?
-Non ne ho idea – mormorò Mariolina – non ne ho proprio idea. Da un lato, se sa qualcosa e non ce lo dice, significa che non è nulla di grave. Dall'altro, se in realtà non sa nulla, perché continua a comportarsi come se sapesse?
Bianca non tornò da lui in aula ricevimento. E lui non avrebbe saputo come avvicinarsi a lei per parlarle; era sempre inespressiva o cupa, sembrava che non volesse nessuno attorno, che tutto le fosse diventato un peso. Nelle prove scritte era sempre la prima della classe, ma Emanuele temeva che non avrebbe aperto bocca in caso d'interrogazione.
Un giorno, dopo due settimane di quella situazione, Emanuele entrò in terza A durante la ricreazione.
La trovò lì, muta e immobile, a fissare i suoi compagni sotto di lei. Aveva l'espressione di chi aveva vissuto cent'anni.
-Bianca? - la chiamò.
Lei si voltò verso di lui. Nel suo sguardo, capì finalmente Emanuele, c'era odio. Malsopportazione. Era lo sguardo di chi ce l'aveva col mondo per qualche cosa e non ne poteva più di viverci in mezzo. Quello sguardo, anche se proveniva da una bambina di sedici anni, riuscì a intimidirlo.
Ma se lei se ne fosse accorta ne avrebbe approfittato, e così fece finta di nulla.
-Posso sedermi qui con te?
-Prego.
Si sistemò sul banco davanti al suo. Avevano poco tempo, per cui decise di non girarci attorno.
-Che cos'hai, da un po' di tempo a questa parte?
-Scusi?
-Ma sì. Non parli con nessuno, non esci nemmeno dalla classe... non mangi...
Non blateri più che mi ami follemente, avrebbe voluto aggiungere.
-Non lo so – rispose lei, inaspettatamente – mi sento così. Forse ci avevo investito troppe energie... in troppe cose, e ora... sono tutte fallite. Va sempre così. Ma è normale, per me andrà sempre così. Basta abituarcisi.
-Non è detto che andrà sempre così – protestò Emanuele – andrà meglio, sicuramente. Le cose non possono sempre andar male.
-Non ho detto questo, infatti.
-E allora cos'hai detto?
-Ho detto che io mi butterò a capofitto in milioni di progetti, ancora molte volte, prima di stancarmi. E poi succederà questo, di nuovo. Ogni volta.
-Succederà che cosa? Che non vadano in porto?
-Già. E che io stia così. I miei non mi lasciano più stare a casa.
-Perché?
-Perché mio padre dice che sono solo viziata e stupida, e che se mi vede a casa mi prende a calci in culo.
-No, intendevo, perché dovresti stare a casa?
-Perché qui non ci riesco a stare. Tra poco credo che non avrò nemmeno più voglia di parlarle.
-Ti do fastidio?
-No, no. È solo che... - scosse la testa, come se lui non avesse potuto capire – beh, lasciamo perdere.
-E se a me non andasse, di lasciar perdere?
Le sorrise. Lei, stupita, lo guardò.
-Prof – incominciò, atona – lei mi ha fatto capire molto chiaramente quali siano i suoi sentimenti, se di sentimenti si può parlare, nei miei confronti. Io non voglio la sua pietà. Non voglio un assistente sociale. Non voglio nemmeno un amico, e, anche se lo volessi, di sicuro non lo cercherei in lei. Le ho esplicitato in diverse occasioni che cosa io desidero dalla sua parte, e lei, in tutte quelle occasioni, mi ha ripetuto che non era possibile; il sunto di tutto ciò è che per quanto mi riguarda lei può tranquillamente lasciar perdere. Io sto bene così. Si dimentichi di me. Pensi a Camilla e al lavoro e al cane e a tutte le cose che la fanno sentire bene, e non perda tempo con una sedicenne problematica che non le procura altro se non brutti pensieri. Davvero, non la biasimerò. Farei la stessa cosa anch'io, al suo posto.
Emanuele si sentì enormemente dispiaciuto.
-E chi si occuperà di te, allora? - le chiese.
-Senta... - sembrava esasperata – come le ho già fatto presente, non ho bisogno di assistenti sociali. Non sono un cagnolino abbandonato in autostrada, e lei deve scendere una volta per tutte dal cavallo bianco.
-Non volevo darti quest'impressione...
-Ne abbiamo già discusso, delle sue 'impressioni'. Ma vuole sapere qual è la mia, di impressione? Ha presente La Piccola Principessa, dove l'indiano dell'abbaino di fronte vede che è sola, povera e triste, e le riempie la camera di belle cose e poi la adotta come se fosse figlia sua? Ecco; la mia impressione è che lei voglia fare questo. Bene: se lo scordi. Si scordi di poter fare il salvatore, si scordi di potermi aiutare in qualche modo. Lei non ne è in grado. Se mi ricambiasse, forse cambierebbe qualcosa, ma così non è, e quindi, se non può fare questo, grazie lo stesso, ma si faccia gli affari suoi.
-Bianca, smettila di essere così maleducata – insorse Emanuele. Iniziava a stancarsi di quei modi.
-Ah sì? - fece lei, con sfida – E perché? Lei sarebbe gentile con una che la rifiuta e poi pretende anche di essere la sua crocerossina?
-Ma rifiutare cosa?! Bianca, hai sedici anni, sei ancora troppo piccola per parlare di rifiuto.
-Oh, ma dai – sbottò lei – beh, meno male c'è lei, dall'alto della sua saggezza, che mi spiega cos'è l'amore. La prego, io mi fermo qui; lo faccia anche lei, prima di costringermi a dire cattiverie.
-Non costringere me a dirle – replicò a denti stretti Emanuele – e ti assicuro che ne avrei, nella mia cartucciera.
-Allora, onde evitare di dire cattiverie da entrambe le parti, mi faccia l'enorme favore di alzarsi e lasciarmi stare.
Lo guardò con odio. Lui restituì lo sguardo.
-Vedi di rivolgerti con più educazione ai tuoi insegnanti.
Lei ghignò con sarcasmo. 
-È a questo che siamo arrivati? Lei che mi fa la predica sui miei modi? E magari se non sto zitta mi mette una nota? Ma lei non voleva essere quello diverso, l'amicone di tutti?
-PIANTALA – gridò, battendo una mano sul suo banco.
Lei lo fissò imperturbabile.
Perché doveva ricordargli ogni volta quanto fosse piccolo, stupido e fallito?
-La smetto se lei mi lascia stare. E adesso per favore, va bene così?, per favore, mi lasci stare.
Lei si girò di scatto e quell'enorme massa di capelli rossi le coprì interamente il viso.
Ma una goccia si schiantò sul banco con un rumore quasi impercettibile, ed Emanuele si sentì sprofondare. C'era davanti a lui una ragazzina di sedici anni che gli raccontava di essere stanca della vita, e lui le urlava contro perché gli aveva fatto notare che la trattava con condiscendenza.
Non avrebbe voluto fare l'insegnante severo. Non avrebbe nemmeno voluto porsi come un insegnante. Meno ancora, avrebbe mai voluto ferirla.
Ma questo era ciò che alla fine aveva fatto.
E se l'era presa con lei, solo perché non era stato in grado di corrispondere alle sue stesse aspettative su se stesso.
-Mi dispiace – mormorò – ho sbagliato.
-No – la voce rotta di Bianca emerse flebile dalla massa di capelli.
-Non volevo gridare. È solo che...
Come poteva spiegarglielo?
-Lo so. Lo so, cazzo. È solo che...
-Lo so.
Emanuele allungò una mano verso il suo banco. Soltanto una mano, non si mosse da dov'era. Allungò una mano e la pose sopra quella piccola e fredda di Bianca. Con il pollice ne accarezzò lievemente il dorso e le goccioline trasparenti continuarono a cadere sul banco, con un rumore quasi impercettibile.

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