5. Elettricità

988 75 337
                                    

5. Elettricità

Ero perfettamente sola adesso. Capii come aveva dovuto sentirsi Jason quando improvvisamente ero scomparsa davanti ai suoi occhi, anche se dubitavo che lui si fosse domandato se fossi realmente esistita.

Quello che non capivo - tra l'altro- era perché mi sentissi così sola e vuota. Avevo così disperatamente bisogno del mio doppione? Doppione. La somiglianza tra noi era sottile, non lampante, sembrava scaturire dalla nostra essenza più che da carattere e aspetto. Non avrei mai potuto affermare che fossimo uguali. Lui era bellissimo, forte, intelligente, astuto... E faticavo ad ammetterlo, irresistibilmente spaventoso.

E io? Carina, abbastanza deboluccia, intelligente si! Su questo non mi sarei mortificata... E astuta? Beh, il tanto che bastava al mio noioso e prevedibile mondo: in definitiva meno di Jason. In quanto all'essere spaventosi... qui da me me la cavavo abbastanza bene, ma era poco probabile che da lui in Inverso – così avevo iniziato a chiamare dentro di me il suo assurdo mondo - qualcuno si sentisse toccato dalla mia persona.

In definitiva no, non ci somigliavamo poi molto, eppure il segno era comparso quando lo avevo riconosciuto e per lui doveva essere stato lo stesso. Gli arrovellamenti erano solo all'inizio quando sentii bussare alla porta. Trasalii e corsi ad aprire.

Era Angie, il viso corrucciato e ansioso. Vederla mi diede un grande sollievo, c'era ancora qualcosa di normale attorno a me.

"E' tutto il giorno che ti chiamo!". Interruppe bruscamente la sua ramanzina mentre sgranava gli occhi. "Ma che hai fatto?", mi urlò contro inorridita.

Rimasi di sasso. Cosa avevo fatto? Cosa poteva aver capito? Poi indicò la mia testa. Chiusi gli occhi e sospirai.

"Ho fatto i colpi di sole, tutto qui".

Era perplessa, conosceva le mie opinioni rispetto all'essere biondi in California; tuttavia Angie, dopo la sorpresa iniziale, si limitò a osservarmi in silenzio per un minuto buono dopodiché sentenziò: "Ti stanno... bene!". Era sorpresa quanto me di sentirsi dire quelle parole e il motivo era che lo pensava davvero.

"Grazie. Dai entra".

"No, sono di corsa. Volevo solo assicurarmi che fossi viva, visto che non rispondi al cellulare".

Mi ero completamente dimenticata questioni ordinarie come controllare il telefono; sembravano di così scarsa importanza alla luce di quello che mi era successo. Sentivo però la pressante necessità di non farne parola con nessuno. Ero già reputata al limite del ricovero per pazzia.

"Scusa, non l'ho sentito".

"Beh, si eri dal parrucchiere...Ma da chi sei andata... e di domenica?". Era guardinga, sospettosa e capii di non avere una risposta adatta.

Sbuffai e mi poggiai indolentemente allo stipite della porta. "Insomma vuoi entrare o vuoi continuare a farmi il terzo grado dalla porta?". Cercai di mantenere il tono fermo, ma dentro di me annaspavo alla ricerca di una spiegazione plausibile.

Angie sussultò guardando l'orologio. "E' tardi, devo scappare! Ci sentiamo dopo!", e corse via verso la sua macchina. Mi lanciò un ultimo sguardo dalla portiera, mi salutò e andò via. Per ora ero salva.

Dopo un paio d'ore tornò la mia famiglia e l'agitazione mi riassalì. Per i capelli non potevo farci niente, ma badai bene a controllare che nessuna novità facesse capolino dalla mia scollatura. Inspirai a fondo e aprii la porta con un bel sorriso finto sulle labbra.

Esattamente come mi aspettavo mia madre si immobilizzò sulla soglia e mi squadrò attentamente. Le restituii lo sguardo.

"Ciao mamma, ti piacciono?", chiesi in tono frivolo cercando di prevenire la sua reazione.

InversoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora