11. Gita

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11. Gita

Di quella notte ricordo poco, le sue mani che mi sfioravano la fronte, l'improvviso calore e la consapevolezza che se fosse servito avrei bruciato per sempre di febbre pur di averlo accanto a me sano e salvo.

Aprii gli occhi nella grande camera da letto in penombra. Ero sotto diversi strati di coperte. Ero leggermente frastornata, ma mi sentivo bene e sapevo di chi era il merito. Sorrisi e mi voltai. Jason era seduto accanto a me e mi guardava con sguardo serio; tese una mano verso il mio volto tastandomi lievemente la fronte, era calda sulla mia pelle.

"Come ti senti?", chiese ritraendo la mano.

"Sto bene, ora".

La tenue luce non mascherava il suo cipiglio preoccupato, una ruga tra le perfette sopracciglia. Cercai di tirarmi su a sedere, lottando contro la coltre di coperte che mi bloccava e ridacchiai mentre tentavo di riemergerne. "Aiutami, dai!".

Jason ricoprì di pelle le sue braccia e mi tirò a sedere, tenendomi per le spalle, come se pesassi pochi grammi.

"E così hai bisogno della tua pelle per occuparti di me?", chiesi con finto tono inorridito.

Mi aspettavo una battuta, o quantomeno una risata, e invece vidi un lampo di dolore e tormento passare nei suoi occhi, poi però sorrise e le sue braccia si scoprirono, ma non lasciarono la presa; mi estrasse completamente dal letto e mi poggiò sulle sulle sue ginocchia, portando con delicatezza il mio capo contro il suo petto. Mi strinse forte, in silenzio.

Sentivo il suo viso contro i miei capelli, ma invece della beatitudine che avrei dovuto provare, avvertivo che c'era qualcosa che non andava. Avrei voluto guardarlo negli occhi per verificare che mi stessi sbagliando, ma intuivo che vi avrei trovato la stessa ansia che stavo avvertendo io. C'era un che di disperato nel suo abbraccio.

Provai a scostarmi per studiare la sua espressione, ma non me lo permise. Spalancai gli occhi, impaurita dalla sua reazione, e incapace di parlare.

Liberai un braccio e lo passai attorno alla vita di Jason, cercando di contrastare il panico che sentivo irradiare da lui. Non mi permise neanche quello. Si scostò e mi fece scivolare sul letto.

Sorrise con sforzo. "Ti preparo la colazione, ti va?".

"Cos'è successo da te?", chiesi con un filo di voce.

Fece spallucce. "Niente. Dopo il tuo risveglio sono scappato".

Tutto qui? "E perché ci hai messo tanto a tornare da me? Ero preoccupatissima!", sbottai indignata.

Si alzò dal letto e mi diede le spalle. "Avevo degli impegni con Ethan e Kore, non sono potuto venire prima".

Fissai le coperte, completamente sbalordita.

Mi contemplò dalla soglia. "Non pensavo che stessi così male...Scusa per il bagno a mare, dovevo fargli credere che ci fossi ancora, per confonderli".

Riportai gelida lo sguardo su di lui. "Pensi forse che il problema fosse questo?", chiesi indicandomi malamente. Dovevo fargli capire. "Jason...", attaccai.

"Ti aspetto di là", concluse interrompendomi e sparendo oltre la porta.

Andai in bagno a lavarmi il viso, maledicendomi senza sosta per non averlo raggiunto in Inverso.

Era successo qualcosa. Lui era...diverso. Si era stancato improvvisamente di me? Delle mie continue paranoie? Tutto in una notte? Strano...O piuttosto era qualcos'altro...In fondo per colpa mia stava correndo pericoli mortali. Mi pettinai alla bell'e meglio i capelli e andai in cucina. Avrei sistemato tutto, doveva ascoltarmi. Mi sedetti a tavola, la cucina era piena di sole, piena di Jason. Mi porse una tazza di caffè e si accomodò di fronte a me guardandomi con leggero distacco. Il gelo mi invase.

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