Un passato che non passa

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5. UN PASSATO CHE NON PASSA

All these folk, they think that I’m evil
Like I am the living devil himself.”
(Evil, Nadine Shah)

Una settimana dopo
Jalia e Diana passeggiavano fra le bancarelle per scegliere cosa comprare. Charlie, comodo nel passeggino, indicava con meraviglia tutto ciò che era colorato.
“Allora, come mai siete a Birmingham?” domandò Jalia, e intanto riempiva un cestino di mele.
Diana abbottonò meglio il giubbotto di Charlie perché non prendesse freddo.
“Perché a Londra mi sento sola. Qui ci siete tu, Amabel, Charlie. Insomma, qui mi sento a casa.”
“E qui c’è anche Finn.”
Diana trasalì nell’udire quel nome. Finn. L’aveva lasciata circa una settimana prima con la ragione più crudele del mondo: aveva smesso di amarla. La ragazza aveva pianto fino ad addormentarsi, aveva trascorso giorni interi sotto le coperte, aveva letto e riletto ‘Romeo e Giulietta’ consumando le pagine. Proprio come la coppia veronese, anche lei e Finn avevano avuto una tragica fine.
“Non sono qui per lui. Anzi, non voglio neanche vederlo. Sono tornata perché mi manca casa mia.”
Jalia le scostò una treccia dalla spalla e le sistemò un ciuffo ribelle.
“Signorina, a casa vostra c’è sempre posto per voi. Vostra sorella è molto gentile a lasciare che io me ne occupi.”
“Lo sai che Amabel ti vuole bene. Si fida di te tanto da affidarti la casa dove siamo cresciute. E anche io mi fido di te.”
Jalia non aveva mai avuto intorno persone buone, tutti avevano sempre giudicato il colore della sua pelle senza conoscerla. Per gli altri era sporca, veicolo di infezioni, e quindi aveva vissuto da emarginata. Conoscere Amabel Hamilton aveva migliorato la sua vita e sarebbe stata grata a vita per quella fortuna.
“Grazie, signorina. Cosa volete mangiare a pranzo? Il piccolo Charlie ci farà compagnia.”
“Salve, bella donzella!”
Le due ragazze sobbalzarono per lo spavento. Alle loro spalle c’era Milos con un sorriso smagliante.
“Tu mi pedini?” chiese Diana, infastidita.
“In verità, lavoro con mio padre al mercato ogni fine settimana. Vendiamo il pesce che peschiamo dalle nostre parti.”
“Noi dobbiamo andare.” Disse Jalia, e prese Diana a braccetto per allontanarla dal ragazzo. Diana represse un grido quando Milos le balzò davanti con un salto.
“Ti va di fare un giro con me? So che tu e faccia-di-topo vi siete lasciati, perciò ora sei libera di uscire con me.”
“Finn non è una faccia di topo!”
“Però ha il cervello minuscolo come un topo se ha mollato una come te.” replicò lui con quel suo tono sicuro.
Diana intravide un paio di giovani Peaky Blinders camminare lungo il canale, tra cui Martin, ed era certa che avrebbero riferito a Finn di averla vista con un altro.
“Sì. – disse lei – Vengo a fare un giro con te. Però ti avverto: se provi a mettermi le mani addosso, lo dico ad Arthur e poi devi pregare che lui non ti ammazzi.”
Milos per un momento sembrò impaurito, poi si rilassò e sorrise come suo solito.
“D’accordo. Andiamo, principessa?”
Jalia guardò la coppia allontanarsi in direzione del centro con perplessità.
“Sai una cosa, Charlie? Tu sei proprio fortunato ad essere ancora un bambino.”

Emily era stupita dal modo in cui Amabel riusciva ad intrattenere una decina di bambini. Quella mattina la dottoressa si era presentata nel reparto pediatrico con un buffo cappello piumato e uno strano mantello di velluto blu. La febbre spagnola aveva ucciso uno dei piccoli pazienti, pertanto Amabel stava cercando di risollevare il morale dei bambini affinché non si perdessero d’animo.
“Cantaci una canzone!” esclamò uno dei bambini, Jasper dell’orfanotrofio.
Amabel si inchinò in maniera maldestra per far ridere tutti.
“Come desiderate, monsieur.”
La dottoressa salì in piedi su una sedia, tossì e si aggiustò il cappello per apparire ancora più divertente.
“La barchetta in mezzo al mare è diretta a Santa Fè, dove va per caricare mezzo chilo di caffè. La comanda un capitano con la barba rossa e blu, fuma un sigaro toscano e proviene dal Perù. Ha molto coraggio perchè l’equipaggio in quella barchetta non c’è! Il nostro brav’uomo fa il cuoco, il nostromo e si aggiusta il gilè. La barchetta in mezzo al mare è diretta a Santa Fè, dove va per caricare mezzo chilo di caffè!”
“Sei stonata!” strillò Jane tra le risate.
Amabel finse di essersi offesa, scese dalla sedia e mise il broncio.
“Voi siete un vero pubblico ingrato! Non capite il vero talento!”
Quello era uno spettacolo che avevano inventato lei e Oliver quando lavoravano assieme a New York, ecco perché Amabel provava una fitta di dolore da quando aveva indossato il cappello.
“Dottoressa.” La richiamò Emily con occhi spenti.
“Che succede?”
“Si tratta degli esami di Spencer. I polmoni cederanno nelle prossime settimane. Secondo il dottor Perry non c’è nulla da fare.”
Il sorriso di Amabel appassì come un fiore calpestato. Aveva preso Spencer in cura due mesi fa ed era convinta che pian piano si sarebbe ripreso, poi il bambino era stato trasferito in pneumologia sotto la supervisione del dottor Perry perché le sue condizioni si era aggravate.
“Tu sei assolutamente sicura? I risultati potrebbero essere sbagliati, in fondo capita spesso che i campioni in laboratorio vengano contaminati.”
Emily toccò il gomito di Amabel in una muta consolazione.
“Mi dispiace, dottoressa.”
“Devo tornare a casa. Avvisa Ada che mi prendo la mattinata di permesso.”
Amabel lasciò il reparto col mantello che le svolazzava intorno e un peso opprimente sulle spalle. Nella sua mente c’era un solo pensiero: salvare Spencer.

Red right hand 3 || Tommy Shelby Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora