SPARARSI SU UN PIEDE.

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I Seri sono i più potenti amanti dello studio, i loro Avatar nel mondo terreno. Simili agli Stregoni del Signore Degli Anelli, vagano per la facoltà, e vi si possono incontrare a qualsiasi ora (si vociferava di loro riunioni in aula magna nelle notti più oscure).

I Seri sono figure terribili e meravigliose.
Austeri, compiti, con l'umorismo di un Lemming e una borsa a tracolla sempre piegata dal peso dei libri, i Seri dedicano la loro intera esistenza (in-te-ra) allo studio.

Studiano ovunque.

Studiano qualunque cosa.

Studiano sempre.

Sono portatori di una vita di sacrifici: austera, priva di divertimenti.

Eppure, in biblioteca, sono figure ricercate.

Tutti vogliono sedersi accanto o vicino a un Serio.

Un Serio emette un'aura di "studiosità" per un'area di circa 25 metri quadrati. Chiunque si trovi dentro l'area, se fallisce un test di destrezza, si ritrova pervaso da un'insana voglia di studio e di disciplina.

Si narra di uomini con la terza media, che in presenza di un Serio hanno letto e commentato "Kritik der Urteilskraft" di Kant in meno di quindici minuti.

E io ce l'avevo a non più di dieci centimetri di distanza.

Immediatamente, gli istinti del cacciatore di studentesse vennero sopiti, sostituiti da un'invincibile sete di conoscenza e ricerca.

Misi gli occhi sulla prima pagina del libro e mi risvegliai due ore dopo.

Controllai più volte.

Ma avevo davvero ripassato, riassunto e, soprattutto, memorizzato quarantacinque pagine di libro.

Non avevo studiato. Era stato un download. Un imprinting.

Avrei potuto sostenere una tavola rotonda sulla letteratura greca e latina, in particolare su Andomenide e Filodemo.

Nemmeno mi ero accorto che nel frattempo gli avventori della facoltà erano cambiati.

Il Serio era andato via, con mie infinite benedizioni.

Al suo posto si era però, ahimè, insidiato, cercando di occupare meno spazio possibile, uno studente di ingegneria.

Come avevo fatto a riconoscerlo?

Portava gli stessi vestiti che un dodicenne avrebbe giudicato troppo da terza elementare; per terra, si accucciava uno zaino Invicta, risalente senza dubbio alla sua terza media; guardava con malanimo uno scaffale della libreria che era evidentemente montato male.

L'accusa ha finito, vostro onore.

Il posto alla mia destra invece era ancora occupato dal mio nemico di giornata: l'Assente. Potevo denunciarlo a Daniele, visto che nessuno può occupare un posto e stare tutto il tempo fuori; nemmeno io lo facevo (nessuno può disobbedire alle regole della Sala di Lettura).

Mi bullai tra me e me per un po' dell'ottimo lavoro fatto sui libri, e decisi che era il momento di una pausa.

Mi alzai con grande silenzio e uscii fuori in giardino. 

In giardino non c'era molto da fare.

Si poteva prendere un caffè alla macchinetta, telefonare a qualcuno, oppure fumarsi una sigaretta. Presi una cioccolata calda dalla macchinetta.
O meglio, era il liquido bollente che lanciavano dalle mura durante gli assedi.

Ma ormai me l'ero fatta piacere, infatti piansi solo per trenta secondi quando mi scese in gola, che raggiunse la temperatura di un altoforno.

Rimasi lì, a guardare gli alberi e il cielo, con l'espressione di chi, da un momento all'altro, avrebbe trovato il modo di far funzionare le auto ad energia solare.

La facoltà era sempre piena di gente, ma a quell'ora tutti erano andati a pranzo. Sembrava che ci fosse qualcuno che parlava seduto su una delle panchine coperte dalle siepi; una ragazza sicuramente.

Infilai un tiro da tre nel cestino col bicchiere vuoto (no, in realtà lo mancai di un braccio), quando vidi la ragazza che stava parlando al telefono emergere dalla panchina dietro le siepi e venire verso di me.

Ariel.

Non era il suo nome, ovviamente. Ma era la personificazione di Ariel, la sirenetta della Disney (quando aveva gambe umane, ovviamente).

Capelli rossi naturali da irlandese purosangue, lentiggini appena accennate sulle gote, sguardo da cui si veniva risucchiati e catapultati in una valle di cascate e verdi prati a perdita d'occhio, corpo tonico e armonioso come il suono delle sfere del paradiso.

Non ero mai riuscito a parlarci.

Non ero mai riuscito ad arrivarle neanche vicino.

Ogni volta che la vedevo, rimanevo immobile facendo l'espressione della trota salmonata.

Ed ora stava venendo nella mia direzione.

Mi raccomando, mi ripetevo, fai il vago. Fingi che non ti interessi neppure...

Ariel arrivò a due centimetri da me, e si fermò. Aveva gli occhi lucidi e l'espressione di qualcuno che sicuramente aveva affrontato una telefonata molto difficile.

- Scusa, hai da accendere, per favore?

Ce l'avevo! Ce l'avevo eccome! Fuoco, amico dell'uomo, flagello delle tenebre! Ce l'avevo!

Smisi di  fantasticare su me che alzavo la Coppa del Mondo di portatori di accendini, e lo cavai fuori dalla tasca. 

Bisognava dire una frase intelligente e divertente. Ma non banale.

- Anche se non l'avessi, mi sembri una che ne ha così bisogno che...

Lei afferrò l'accendino. Accese la sigaretta, ripeté "grazie" e tornò alla panchina.

... Cinque minuti dopo finii la frase.

- ... che te lo sarei andato a comprare. 

So che l'ho già detto ma ... stupida coordinazione mente/bocca. 

Sconfitto, emotivamente e fisicamente provato da quella parentesi poco memorabile della vita del sedutttore universitario dilettante, tornai in biblioteca. 

Con ragazze come Ariel hai solo un'occasione. Soltanto un colpo.

E io mi ero appena sparato su un piede. 

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