2. Il ragazzo dell'ascensore

767 64 501
                                    

Juliet

Quando si viveva in ospedale per periodi più o meno lunghi, anche fare cose semplici e banali come sostare in caffetteria poteva essere divertente. Io mi ero abituata a trovare la bellezza nelle piccole cose: nel frullato che ordinavo e che puntualmente lasciavo a metà, per esempio. Preparato dal sempre efficiente Clay, aveva sempre un gusto dolcissimo, proprio come la persona che ogni giorno me lo preparava.

Cercavo sempre di trovare qualcosa di positivo in tutta quella merda e, stare per qualche minuto in compagnia del mio migliore amico seduta in quei tavoli, era tutto ciò che potessi associare alla mia idea di felicità.

Avevo conosciuto Liam tra queste mura, proprio sette anni prima. Lui era sotto cure da due settimane e in quel reparto era davvero solo. Lo trovai in sala giochi che tentava di ammazzare lo scorrere del tempo con un libro tra le mani. Si era presentato con l'aria sfacciata di chi fosse abituato alla vita ospedaliera, come se essere ricoverati per un disturbo alimentare a quell'età non fosse poi qualcosa di così tanto grave.

Ed era rimasto con me, fin dal primo momento. C'era la prima volta che le mie narici furono torturate dal sondino, era con me quando durante le mie crisi continuavo a mandarlo via senza nemmeno mostrare un minimo di rimorso. Era l'unico amico con cui mi sentivo libera di essere me stessa. Ne avevo altri, certo, ma lui era l'unico che non mi guardava con la compassione nello sguardo.

E poi, gli amici al di fuori dell'ospedale non li vedevo spesso. All'inizio venivano sempre a trovarmi, poi quando i miei ricoveri continuavano a prolungarsi per tempi indefiniti, avevano cominciato a farsi sentire solo tramite telefono.

Così fino a quando non erano spariti del tutto e i nostri contatti avvenivano sporadicamente. Ero rimasta da sola. Io, la mia malattia e Liam. Non era sicuramente facile mantenere un rapporto quando si affrontavano certi demoni, ma quello con Liam era destinato a essere solido perché, ironicamente, erano stati proprio quei demoni a renderci uniti.

«Credimi, sono veramente stanco. E spero per lui che non gli venga in mente di-» Liam fermò la sua chiacchera, aggrottando le sopracciglia. «Ma mi stai ascoltando?»

Alzai lo sguardo dal tavolo verde pisello. Non che trovassi il colore interessante, anzi. Ero semplicemente sovrappensiero e non mi ero mai posta il problema dell'arredamento di quella caffetteria. Molto probabilmente, era stato un designer sotto effetto di acidi ad averla arredata. «Sì, certo! Sono solo-» sbuffai, scuotendo la testa. Non ci credevo nemmeno io, non potevo pretendere che lo facesse Liam. «no, non ti sto ascoltando. Senti, è sicuramente interessante ciò che hai da dirmi ma non puoi ogni volta parlarmi delle tue relazioni andate male se quello che le chiude sei principalmente tu» risposi, alzando le spalle sotto il suo sguardo indignato e infastidito.

«Ovvio che sono io a chiuderle!» alzò il tono di voce e subito arrossì quando si accorse di due persone che, dietro di noi, si erano voltate a causa del suo strillare, «li trovo tutti pieni di difetti...» aggiunse.

Alzai un sopracciglio. «Liam, i difetti li trovi tu. Alla minima cosa fuori posto chiudi i rapporti come se ti avessero ucciso la madre. Siamo esseri umani, dovresti imparare a dare delle possibilità.»

Fece una smorfia e non rispose. Ci avevo preso in pieno e sapevo che per lui mantenere un qualsiasi legame affettivo era un vero dramma. Lo capivo, in parte, ma non volevo che si isolasse per la paura di sentirsi un peso per chiunque volesse stargli vicino. La sua malattia non lo definiva. «In ogni caso, dopo la mia ultima visita per il peso mi sento molto demotivato. Ho smesso di praticare il vomito autoindotto e Crystal mi ha buttato via tutti i lassativi. Sto anche mangiando, non capisco perché non riesco ad aumentare di un solo grammo» sbuffò e si lasciò scivolare nella sedia, con aria stanca.

Come una matita Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora