Capitolo 8

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L'aroma di caffè gli solleticava le narici, mentre la caffettiera italiana borbottava piano e qualche bollicina sfuggiva all'incastro dei pezzi di ferro. Il pensiero che il caffè fosse pronto balenò nella mente di Levi, ben presto soppiantato dall'attenzione con cui stava soppesando la giacca che aveva indossato il giorno dell'incidente. Essa era riposta comodamente su una gruccia in uno scompartimento vuoto – quello che avrebbe dovuto essere occupato da qualcos'altro, anche se non comprendeva bene cosa - e Levi ricordava bene l'istante in cui l'avesse messa lì.

Non era stata lavata, quella giacca di velluto blu. Era sgualcita, puzzava di sudore e polvere, e ospedale. Soprattutto di ospedale. Odorava di morte, ed il suo tanfo lo faceva boccheggiare per la tensione, motivo per il quale dovette sedersi sul letto per potersi calmare e ricominciare a respirare senza difficoltà. Ormai aveva imparato bene ad autogestirsi nelle situazioni di agitazione e panico, grazie alla terapia a cui si stava sottoponendo da tre mesi, la cui conseguenza era stato solo qualche blando miglioramento e l'incremento di antidepressivi. Eren non l'aveva più visto: ormai era trascorso un mese dalla volta in cui avevano fatto l'amore sino a restare sfiniti nella carne e appagati negli animi. Ma Levi aveva gettato via tutto ciò che Eren gli aveva donato: comprensione, affetto, amore. Ogni cosa era stata ammassata in un angolo remoto e cieco della sua mente, e a niente erano servite le parole della terapeuta.

Perché c'erano ferite che non si sarebbero mai rimarginate, e con questa consapevolezza Levi aveva continuato a vivere – a sopravvivere – ogni singolo giorno. Non si era più dato un'occasione da allora, gettando miseramente la spugna ed arrendendosi alla parte di sé compromessa e logora, assecondandola in tutto e per tutto, finché tutto era diventato ciò che aveva perso.

Porse una mano nella sua direzione, sfiorandola appena con i polpastrelli delle dita, un lungo brivido di terrore che gli arrestò il braccio a mezz'aria; respirò, espirò. Ci riprovò ancora, finché l'intero palmo non fu attorno alla manica, strattonandola con violenza verso il basso, in un lampo di rabbia che non era stato in grado di arrestare. La dottoressa era stata chiara quando gli aveva detto che avrebbe dovuto darsi tempo per fare le cose con calma, senza forzare la mano, e lui era incredibilmente capace nell'alzare bandiera bianca e lasciar perdere. Ma in quel momento, in quell'esatto momento, era stato istintivo il gesto di aprire l'anta dell'armadio per poter guardare quell'indumento di nuovo, quasi a chiedersi come stesse.

Era incolume, almeno lui, nonostante tutto ciò che aveva passato durante lo schianto. La dimostrazione lampante che Levi era stato miracolato, l'esemplificazione perfetta del fatto che fosse sopravvissuto, e che lo avesse fatto al meglio delle sue possibilità, nonostante la sua volontà fosse ben altra. Sospirò piano mentre lo risollevava dal fondo polveroso del mobile, afferrandone i pizzi delle spalle con entrambe le mani; ingoiò un po' di saliva, poi la indossò, insieme a tutta l'aura infernale che Levi immaginava avesse intorno a sé. Comoda da indossare, proprio come tre mesi prima, in fondo come avrebbe potuto essere diversamente? Era passato poco tempo, niente di più di dodici, misere settimane. Poggiò i palmi sul tessuto soffice, lasciandoli scivolare piano lungo di esso mentre socchiudeva gli occhi, quasi a riprendersi le sensazioni che aveva provato quel giorno.

Ma il suo intento non era quello di rammentare l'incidente, bensì le emozioni di tutti i momenti addietro: voleva riavvolgere il nastro temporale sino a quella mattina, assaporare gli ultimi istanti di spensierata allegria che avevano accompagnato Mikasa. Nulla, fu il risultato che ottenne. Testarda come il suo possessore, la giacca sembrava non volerlo aiutare nell'impresa, e per quel motivo la tolse con rinnovata furia e la gettò sul letto, accartocciata e priva dell'anima che Levi aveva proiettato in essa, alla ricerca disperata della sua.

La Moka borbottò con maggiore insistenza e, proprio quando decise di recarsi in cucina per spegnere i fornelli, uno spicchio di carta bianca attirò la sua attenzione in quella pozza di tempera blu notte. Gattonò cautamente nella sua direzione e lo catturò fra le dita, mentre si sedeva sul materasso. Ne saggiò la consistenza coi pollici e lo aprì lentamente, ogni parola di inchiostro che gli risucchiava pezzo dopo pezzo il raziocinio.

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