Capitolo 3

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Levi ci aveva provato, a non credere nella fatalità. Aveva tentato con tutto se stesso di considerare quell'incidente una mera casualità, per l'appunto un incidente, di certo nulla di predestinato. Levi ci aveva provato come gli aveva consigliato la terapeuta suggeritagli dal dottor Smith, una donna dalla capigliatura puntualmente raccolta in uno chignon morbido e degli occhialetti ovali sul naso aquilino, dall'incarnato d'alabastro sul volto appuntito. Era una bella donna in fin dei conti, dai modi affabili e dall'atteggiamento posato, nonostante sapesse perfettamente come estrapolare le giuste informazioni dal proprio paziente per risalire al suo malessere.

Ma la dottoressa Cinders aveva dovuto soprattutto avere pazienza con Levi Ackerman, data la riluttanza che aveva dimostrato nei confronti della terapia; o forse non si trattava della terapia in sé, bensì di ciò che avrebbe comportato: pazienza, fiducia e speranza, quella maledetta che lo stava rapidamente abbandonando giorno dopo giorno.

Per ben tre volte Levi si era ripresentato nel suo studio, e in tutte e tre le occasioni si era seduto sulla poltroncina di pelle bordeaux, si era guardato intorno con fare circospetto, e poi, quando la donna aveva accavallato le gambe e portato le mani in grembo, si era alzato e si era congedato con un "Mi scusi".

Così erano trascorse due settimane in cui Levi aveva rimuginato sul suo comportamento inammissibile ad ogni ora del giorno, ed era furioso con se stesso, ma al contempo gli sembrava che tutte le forze gli venissero meno in presenza della specialista che avrebbe ricostruito la vicenda tassello dopo tassello. Era incastrato in un circolo vizioso che vedeva l'impellente desiderio di sapere, e dall'altra l'intensa necessità di fuggire da quelle colpe. Ma sapeva che avrebbe dovuto farlo. Per lei.

-Signor Ackerman.- lo richiamò il medico per attirare la sua attenzione. -Vuole rimandare alla prossima volta?-

Levi scosse un paio di volte la testa velocemente per destarsi dai brumosi pensieri, mordendo l'interno della guancia quando sollevò fermamente lo sguardo per incontrare il suo. -No.-

Non poteva rimandare oltre. Non poteva più fuggire.

La terapeuta, allora, gli fece cenno con le mani di iniziare a parlare.

-C'è qualcosa che manca, in casa mia. Ci sono... come delle impronte.-

-Impronte di persone?- lo incalzò.

-No.- scosse il capo l'uomo, guardandosi le mani.- Non di persone, non sono orme. Sono... vuoti.- ci fu un istante di silenzio, prima che riprendesse la parola. -Sulla parete nel salotto ci dovrebbe essere un quadro. C'è un chiodo, e poi ce ne sono tre in camera mia. Inoltre, sempre nella mia stanza e in quella da pranzo, manca qualcosa sulle mensole, vuote come metà del mio armadio. Ci sono delle cose che mancano ed io di notte...- il respiro si fece più rapido, ed i palmi iniziarono a sudare freddo e a perdere lievemente sensibilità alle estremità. -... di notte mi sveglio e istintivamente guardo di fianco a me.-

La donna comprese che il paziente aveva concluso il discorso quando lo vide respirare con le labbra socchiuse e la fronte velata di sudore, come se quella confessione l'avesse sottoposto ad uno sforzo disumano.

-Dobbiamo procedere con ordine, Levi, altrimenti non posso associare i sintomi a ciò che lei sta vivendo o ha vissuto in passato. Mi parli dell'incidente, è iniziato tutto da lì, giusto?-

Un lungo sospiro tremulo si levò dalla bocca emaciata e Levi dovette avvolgersi lo stomaco con entrambe le braccia per soffocare l'impulso di rimettere tutto ciò che aveva spiluccato a pranzo.

-Respira, Levi. Farà male, ma è necessario per superare il dolore.-

-Io non lo voglio superare.- gracchiò a fil di voce, dondolandosi avanti ed indietro sulla poltroncina con gli occhi persi nell'angolo della stanza, tutto ad un tratto così angusta da togliergli il fiato.

-Superarlo non significa dimenticare, ma comprendere cosa sta schermando il tuo sguardo da ciò che avevi prima, e perché lo sta facendo.-

Fu in quel momento che le sue pupille acquose furono su di lei, mentre una smorfia di dolore gli contorceva i fini lineamenti del volto. -Ah no? E cosa mi assicura che questa amnesia non sia soltanto un modo per non dimenticare quello che è successo, perché, se risolvessi la situazione, la mia vita proseguirebbe spensierata, come se ciò che è accaduto non mi importasse più? Cosa?-

Le lunghe gambe della terapeuta si sbrogliarono, per poi accavallarsi nel senso inverso. -Questa amnesia non sta conservando il ricordo di tua figlia per il tuo bene, o il suo, ma esiste perché c'è qualcosa dentro di te che, al contrario, ti sta impedendo di ricordare qualcosa di strettamente associato a lei per farti soffrire il meno possibile, e alla lunga questa cosa ti consumerà.- si sporse in avanti per allacciare i loro sguardi, intenta a ricevere la sua massima attenzione per imprimere in lui le parole che gli avrebbe rivolto. -Ed è per questo che io sono qui per te, ma devi fidarti di me.-

Fiducia. Gli stava chiedendo di fidarsi di lei, l'unica persona con cui l'avrebbe fatto probabilmente, visto che si sentiva tradito persino da se stesso.

Levi chiosò un sorrisetto spossato, e fece aderire il corpo allo schienale per lasciarsi andare completamente contro di esso.

-Sa qual è la verità, dottoressa?- domandò a mezza voce, mentre guardava incurante le proprie dita sfregarsi fra loro per alleviare la fastidiosa sensazione di sudore sui polpastrelli.

-Dimmi.-

Poi guardò il tappeto persiano posto sotto la scrivania di legno lucido, la poltrona di cuoio consumata, il lampadario nell'angolo della stanza che tingeva di giallo le pareti nude. -È che io non ho più pazienza.-

-Pazienza per quello che ti sta accadendo?-

-Sì, sì. Io non ho più pazienza, né con gli altri, né con me stesso, perché la mia vita è soltanto una raccapricciante gigantografia del mio fallimento come persona ed essere umano, capisce?-

-E tu non credi che ridimensionare, derubricare questa percezione che hai di te stesso possa farti riprendere le redini della tua vita in mano?-

-No, perché vorrebbe dire sperare. Ed io sono stanco di sperare.-

-Guardami, Levi.-

E così fece, sebbene con chiara riluttanza. Una ciocca scura gli scivolò dinnanzi all'occhio sinistro, ma non si premurò affatto di scostarla. Poi, l'angolo della bocca sottile della donna si sollevò con premura, ed una sincera espressione prese forma sul bel viso, nulla a che vedere con l'insapore empatia che gli mostrava ogni volta il dottor Smith.

-Che ne dici, invece, di iniziare a credere che un cambiamento possa realmente verificarsi?-

L'uomo sbuffò con pungente sarcasmo, scuotendo il capo, ben consapevole di quanto gli sforzi di quella specialista alla lunga si sarebbero rivelati vani ed infruttuosi.

-Questo è compito suo.- disse, per poi sistemare la giacca e pizzicare il pantalone morbido sulle ginocchia per stendere le pieghe.

Si alzò: guardò dapprima le nocche ruvide inserire il bottone centrale nella rispettiva asola, poi toccò alle scarpe, infine diresse gli occhi verso la donna, imperturbabile dinnanzi al suo comportamento. -Stavo accompagnando Mikasa alla lezione di ginnastica ritmica, pioveva a dirotto e mi sono scontrato con una macchina perché non ho visto il semaforo cambiare colore. Mia figlia è morta per causa mia e mia soltanto. Buona giornata, dottoressa.- ed uscì dallo studio. 

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