Capitolo 5

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-La sensibilità ha un peso troppo grande, lo sa, dottoressa?-

Fu così che Levi esordì, spezzando con un singolo, mirato colpo la quiete che bordava la stanza silenziosa. Erano trascorsi almeno dieci minuti di nulla, una routine a cui Levi talvolta non riusciva proprio a rinunciare, bisognoso di far ordine fra tutte le confusionarie parole aggrovigliate nel cervello. Una volta era persino ricorso ad un foglio sul quale aveva appuntato tutti i passaggi che avrebbe voluto seguire nel corso della seduta, come se avesse potuto gestire e manipolare i pensieri, inetto burattinaio delle sue emozioni.

Aveva fallito quella volta, perché i numeri che avrebbe dovuto seguire si erano invertiti, accavallati, e allora quell'inutile pezzo di carta si era ritrovato appallottolato nel cestino di metallo dello studio targato Dott. Cinders.

La testa gli cadde ciondoloni in avanti, testimone di un'altra notte trascorsa fra i sudori freddi ed il cuore che gli galoppava nel torace, un monito a non ritrovare la placida calma nei sogni. Punito da se stesso, ogni cosa nella sua vita gli si era ritorta contro nella più totale anarchia, come cavalli sbizzarriti e furenti contro il proprio nocchiere. -Come si fa ad accettare il dolore?- sussurrò poi, stanco, spossato. Guardò le dita come al solito, come se potesse trovarvi qualcosa di interessante ogni qualvolta che dirigeva lo sguardo su di esse. Nulla, erano sempre le solite cuticole arrossate dai denti, le unghie mangiate fino a fargli male per il nervosismo.

-Affrontandolo. Parlando. Elaborandolo senza mai fuggire da esso.-

Sbuffò una risata, Levi, per poi sbattere piano gli occhi. Qualcosa gli solleticò lo zigomo in quel momento, così condusse il polpastrello su di esso e, quando lo allontanò, una ciglia nera vi era appiccicata. Se ci fosse stata Mikasa, avrebbe soffiato con tutta l'aria che aveva nei polmoni, non prima di avergli fatto esprimere un desiderio. Ma che valore avevano i desideri, se poi si infrangevano? Se venivano calpestati dalla vita con una meschinità senza eguali?

-Una persona mi ha detto che per lei parlare con estranei le permette di completare la sua vita. Ci crede, che l'ho considerato un pazzo appena ha iniziato a parlarmi?- domandò retorico, scuotendo di poco il capo con un blando sorriso sulle labbra, rintontito dalle sostanze chimiche che gli stavano scivolando subdole nel sangue.

Eren, Eren, Eren, era tutto ciò che il suo cervello riusciva ad elaborare da qualche settimana a quella parte, prontamente schiacciato dalla lucidità che gli ripeteva che avrebbe dovuto tenersi lontano da un individuo imprevedibile come quello, ambiguamente familiare. E se si fosse trattato soltanto di un abbaglio? Se la sua mente stava solamente cercando un appiglio al quale aggrapparsi, nel vano tentativo di riesumare le logore macerie del passato?

Domande su domande, tutto ciò che Levi era costretto a fronteggiare ogni singolo giorno, perennemente a digiuno di risposte. Avrebbe potuto trovarle soltanto chiedendo al diretto interessato: avrebbe potuto domandargli se si fossero già conosciuti, se ci fosse qualche sotterraneo legame a fungere da ponte fra le loro anime. Avrebbe potuto semplicemente digitare il numero che gli aveva scritto sul palmo con una penna di fortuna la sera in cui si erano incontrati al parco, a seguito della quale non si erano più visti per giorni. Avrebbe potuto, ma poi, proprio quando il pollice era in procinto di cliccare il tasto verde di chiamata, esso scivolava sul display sino a raggiungere il pulsante di blocco.

Fu la voce melodiosa della dottoressa Cinders a destarlo dai ricordi che stava rivivendo ad occhi aperti, sollevando poi un sopracciglio e conducendo gli occhi arrossati dalla stanchezza su di lei, sempre così elegante e sensuale nel tailleur di perla. -Come, scusi?-

La donna si schiarì la voce prima di ripetere la domanda, una ciocca scura che sfuggì indisponente dall'acconciatura fatta con cura, scivolandole vicino alla bocca piena tinta di rosso carminio. -Quando ha conosciuto quest'uomo?-

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