02.

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Amanda.

Metto in moto la macchina, ma non riesco a partire. Resto ferma a guardare la parete grigia del nostro garage mezzo scassato.
Lo sto facendo per mia madre, tornerò presto.
Queste sono le frasi che continuo a ripetermi da quando questa mattina la mia sveglia ha suonato.

Ingrano la retromarcia ed esco dal garage di mia nonna Sheila. Mi fermo sul vialetto e la osservo. É ferma sulla veranda insieme a Julia, la sua badante che ci ha raggiunto questa mattina all'alba. Mi sta sorridendo. So perché lo sta facendo, vuole che io sia serena e che parta senza pensieri, ma è dura per me.

Mia nonna Sheila è stata più una madre per me che una nonna. Tutte le volte in cui mia madre Brenda era fuori con una delle sue conquiste, era mia nonna che mi preparava da mangiare, che mi metteva a letto la sera e che mi svegliava la mattina dopo per andare a scuola.
Lei si è presa cura di me come nessun altro e ora che avrebbe bisogno di me, io la sto lasciando.

Sto partendo per assecondare l'ennesimo capriccio di mia madre, che come al solito si è comportata da bambina, senza pensare che le sue azioni hanno delle conseguenze. E chi deve mettere a posto tutto? Io, ovviamente.

Tiro giù il finestrino e mi sporgo in avanti tenendo una mano sul volante.

"Ti voglio bene, alisi..." le dico chiamandola nonna in lingua Cherokee. Lei mi sorride e mi fa segno con la mano di andarmene.

Lascio il finestrino abbassato e mi giro verso i sedili posteriori, schiacciando nuovamente sull'acceleratore. La quantità di borsoni e di scatole che ho sistemato nel baule e lì dietro quasi mi impediscono di vedere la strada. Fortunatamente c'è un piccolo spiraglio.
Mi immetto in strada e ingrano la prima.
Osservo per l'ultima volta velocemente mia nonna sulla veranda e poi parto.

Sono appena passate le 9 di mattina, ma il traffico di San Francisco è già intenso. Il sole è alto nel cielo blu e fa molto più caldo di quello che ci si aspetterebbe per gli inizi di giugno.
Abbasso anche l'altro finestrino e lascio entrare nell'abitacolo l'aria che smuove leggermente la canotta rossa che sto indossando e i miei capelli neri.
Accendo la radio e inizio a cambiare stazione finché non trovo Uptown Girl di Billy Joel.
Inizio a muoversi leggermente sul sedile a ritmo di musica.

Mi allontano velocemente dal centro di San Francisco e dopo una ventina di minuti imbocco la CA-99, l'autostrada che porta verso Las Vegas.
Guido tranquilla con una mano sul volante e una appoggiata al finestrino. Quando so che sto per lasciarmi alle spalle San Francisco, sposto lo sguardo nello specchio retrovisore e osservo il Golden Gate Bridge e quello che rimane della baia.

È dura per me riportare lo sguardo sulla strada, perché quel gesto simboleggia fin troppe cose per me. Lasciarmi alle spalle la mia città, la mia casa, mia nonna.
Ma lo faccio, riporto lo sguardo sulla strada davanti a me e mi vieto di guardarmi indietro.
In quell'istante decido di vivere quest'avventura come se fosse l'ultima della mia vita, al limite, senza ripensamenti o rimpianti.

Indosso i miei occhiali da sole, alzo il volume della musica e schiaccio sull'acceleratore. Dopo quasi tre ore di viaggio un beef fastidioso mi distrae dalla strada.

"Ma che cosa?" guardo lo schermo dietro al volante e vedo la spia del carburante diventare rossa e lampeggiare. Alzo gli occhi al cielo. Ma certo, ho pensato a tutto tranne che alla benzina.

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