Capitolo XXIV: Peccatum Caeleste

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   L'alto soffitto della sala faceva trasparire la luminosità delle stelle. Quella luce era l'unica fonte - assieme alla luna - a poter garantire un poco di visibilità sulle pareti e le colonne portanti, tutte quante degli agglomerati di nuvole e vapore. I raggi erano freddi, scostanti, ma stavano solamente anticipando cosa Alexander avrebbe ricevuto da parte degli arcangeli: un rifiuto disgustato.

Lui se lo aspettava, già li reputava degli stolti e - nel mentre le sue ali vibravano dalla frustrazione - le sue scarpe marcavano il pavimento. Avvertiva il pulsare del suo cuore prendere parte al movimento di quella superficie.

Per un breve attimo si chiese quale differenza ci fosse tra quel solaio e la barriera che aveva eretto Lilith. Entrambe nascondevano parecchi segreti. Entrambe illudevano con la loro trasparenza. Entrambe avano una certezza fasulla: poteri opposti, ma stessa funzione. Alzò poi lo sguardo concentrandosi sulla porta che aveva a pochi metri. Immensa e chiusa gli sembrò che lo stesse per schiacciare.
Le parole di Caliel lo avevano messo in agitazione.

Perdona chi non ha avuto il coraggio di farlo.

   Ormai gli era chiaro chi non avesse avuto il coraggio di occuparsi di lui, chi avesse ordinato di farlo crescere nell'ignoranza e nelle menzogne.
Era lo stesso che aveva condannato sua madre. Fece altri due passi sentendosi pressato dalla rabbia. Non aveva mai pensato a lei, non sapeva che esistesse e non si era nemmeno posto la domanda, ma Aida lo stava cercando da secoli. Era diventata una presenza, tormentata e imprigionata in un limbo solo per poterlo rivedere: per poter sapere suo figlio al sicuro.

Il suo cuore pianse a quel pensiero. Che figlio ignobile che era stato. Poteva ripeterlo all'infinito, ma il risultato non sarebbe cambiato. L'unica cosa che avrebbe potuto fare per rimediare era guardare Abegail negli occhi e ricercare un poco delle sua antenata. Tuttavia - pure quello - gli era momentaneamente impossibile.

Alex serrò i pugni e si immobilizzò ad un palmo dalla porta. Una spessa lastra di metallo celeste lo divideva dal poter cambiare le cose. Intanto Caliel lo stava raggiungendo imbarazzato e agitato.
Si tormentava le mani passando lo sguardo dal suo allievo agli angeli che volavano sopra la sua testa. Nemmeno l'esser diligenti nel proprio lavoro aveva impedito loro di osservare e origliare, ancor meno di parlare. Le voci circolavano in fretta: tutta la volta celeste avrebbe presto saputo che Alexander era tornato.

Sarebbe stato classificato come un gesto irrispettoso, da punire - quella volta - con la caduta. In molti lo volevano condannare e spedire da Lucifer, ma erano già stati fermati. Caliel sperò che succedesse di nuovo, che Mikael riuscisse a ragionare: la vita terrestre dipendeva da quello.

Il ragazzo lo precedette di poco nell'aprire la porta. Alex aveva sospirato pesantemente e afferrato la maniglia per portarla verso di sé. Si mosse poi indietro facendo strusciare il pesante metallo vicino ai suoi piedi.
Senza aggiungere alcuno sguardo o parola, camminò rigido fin dentro ad una seconda sala: quella destinata agli arcangeli.

Era immensa e chiara, molto più luminosa di tutto il resto del palazzo, come se il giorno si fosse raccolto al suo interno. Tre seggi - di egual misura, forma e decorazioni - erano posti al centro, sopra a un piccolo basamento di una decina di gradini. Tutt'intorno le pareti circolari si muovevano come il mare in tempesta, chiare e - a tratti - invisibili. Anche là vi erano dei posti in cui il ragazzo ricordava bene di aver visto numerosi angeli chiacchierare e allarmarsi nell'udire la sua sentenza: l'esilio non era abbastanza.

Alexander ingoiò la preoccupazione arrivando fino alle soglie del primo scalino. Lì sentì le gambe cedergli, le mani sudare e gli occhi sfuggire al suo controllo: non volevano muoversi. Desideravano rimanere a guardare le scarpe che l'angelo aveva ai piedi e che stavano sporcando l'ambiente con il loro aspetto trasandato.

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