Capitolo 1

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TIC TIC TIC. Picchiettare la matita sul bordo del banco era l'unica attività che riusciva a non farmi addormentare nel bel mezzo della lezione. Mi sembrava di essere nel video musicale di Baby One More Time, quell'odiosissima canzone di Britney Spears. Mi mancavano solo la divisa scolastica, i capelli legati in due lunghe trecce e un minimo di sexappeal, e che dire... Non avevo nessuno dei tre. I miei capelli castani erano lasciati in completa libertà, con tutti i loro nodi e chissà, forse anche pidocchi, e quel giovedì mattina indossavo un semplicissimo paio di jeans scuri e una felpa grigia con su la scritta più banale al mondo:"I LOVE NY".

L'orologio segnava le otto e tre quarti, il che significava che mancava ancora un abbondante quarto d'ora alla fine della lezione. Era solo la prima ora eppure già ero annoiata a morte e non vedevo l'ora di tornare a casa.

Distaccai lo sguardo assente dalla lavagna per girarlo verso il fondo dell'aula. Certo che ero proprio finita con dei compagni di classe bizzarri... La metà di loro aveva un handicap oppure qualche problema di apprendimento: uno soffriva di DOC, due erano discalcoli, tre dislessici, due avevano la sindrome di Down, uno era sulla sedia a rotelle e Oscar... beh, lui era semplicemente sè stesso. Perché mi trovassi lì con loro era, per il momento, ancora un mistero.

Oscar, che era seduto in ultima fila, mi fece l'occhiolino. Scambiai il suo saluto con un accenno di sorriso per poi tornare alla mia attività da tamburellista. "Angelica, ti dispiacerebbe finire il tuo concerto e concentrarti sulla lezione?" Le parole della professoressa Greenwich mi risvegliarono dai miei pensieri costringendomi a posare la matita da parte e questa volta a seguirla sul serio.

Presi solo mezza pagina di appunti prima che la campanella suonasse segnando la fine della lezione. La professoressa di lettere raccolse in fretta i libri che aveva prestato a chi, come me, li aveva dimenticati a casa e quando arrivò al mio banco, abbassò il capo e disse con voce appena udibile:"Angelica, puoi seguirmi fuori dalla classe?" La guardai imperturbata per poi annuire e fare come mi aveva chiesto.

Una volta nel corridoio la professoressa mi rivolse di nuovo la parola:"Angelica..." Perché ogni sua frase doveva iniziare con il mio nome? "Il signor Diggory mi ha detto che anche questa settimana hai saltato il tuo appuntamento." Completamente impassibile, continuai a guardarla con le braccia incrociate al petto. "Angelica, prima che tu possa controbattere, ricordati che sono la coordinatrice della tua classe e che è quindi mio dovere assicurarmi che tu vada a trovarlo almeno una volta a settimana... Posso sapere perché continui ad evitarlo?"

Aspettati qualche secondo prima di rispondere. Quando finalmente le parole giuste si furono formate nella mia testa, le sorrisi e con voce calma e composta le spiegai:"Lunedì ho Freyer, martedì Parkinson, mercoledì mattina Diggory, il pomeriggio Bloomleaf..." La professoressa distolse in fretta il suo sguardo dal mio. "... crede davvero che io abbia tempo per vedere tutti i miei psicologi?"

Non osò replicare. Annuì silenziosamente prima di lasciarmi tornare in classe senza troppe cerimonie.

∘ 〄 ∘

"Dai ti prego, vieni da me!" "Oscar, te l'ho già detto. Alle quattro e mezza devo andare dalla psicologa altrimenti mio zio mi uccide." Oscar mi stava stringendo il braccio così forte da fermarmi quasi la circolazione del sangue. "E puoi lasciarmi stare?" Strattonai il braccio dalla sua presa per poi fermarmi davanti al cancello del liceo e guardarlo infastidita. "Va bene, va bene... Ma allora che faccio?" Alzai le spalle completamente indifferente. "Fatti una corsetta o una partita di calcio come sempre." Incrociò le braccia al petto ma alla fine fu costretto ad accettare la sconfitta e mi lasciò tornare a casa.

Una volta arrivata a destinazione ebbi giusto il tempo di fare uno spuntino in cucina prima che mio zio mi costringesse a raggiungerlo in macchina per portarmi dalla psicologa. "Com'è andata oggi a scuola?" Mi chiese tranquillamente a metà strada, tenendo lo sguardo puntato dritto davanti a sè. "Bene." Mentii ripensando al cinque in matematica. Avrei dovuto chiedergli com'era andata al lavoro? Non poteva essergli successo niente di molto interessante quella mattina; fare il bibliotecario non prevedeva una vita poi così avventurosa.

Mi lasciò scendere dall'auto mentre cercava parcheggio e per un millisecondo pensai di farla franca e scappare da Gustas Tu, la mia gelateria preferita, ma il rumore del suo clacson mi fece capire che aveva calcolato la mia mossa e che per questa volta avrei dovuto rinunciare al mio piano.

Lo studio della signora Bloomleaf si trovava al secondo piano. Salii i gradini svogliata e quando entrai nella sala d'aspetto non mi sorpresi nello scoprire che ero sola.

Il mio nome fu chiamato un minuto dopo. La psicologa mi sorrise gentilmente invitandomi nel suo ufficio. L'ampia stanza era semibuia e arredata con fragili pezzi d'antiquariato, tra cui una poltrona giallo sbiadito su cui fui costretta a sedermi. La signora Bloomleaf entrava perfettamente in simbiosi con l'ambiente: anche lei vecchia quanto i mobili, aveva un paio di occhi azzurrissimi e i capelli tinti di un rosso troppo scuro per essere naturali.

"Angelica, come stai?" Fu la sua prima domanda. E visto che era una psicologa, mentii:"Bene". Il suo sorriso scomparve quasi immediatamente e il suo sguardo si fece improvvisamente più duro:"Angelica, come stai?" Mi chiese nuovamente. Forse era per questo motivo che la signora Bloomleaf, fra tutti i miei psicologi, era di gran lunga la mia preferita. Era diretta e sapeva riconoscere subito una bugia, cosa che mi infastidiva ma al contempo lasciava in totale ammirazione.

"Male." Continuò a scrutarmi in attesa di dettagli. "Oggi ho preso cinque in matematica." Il suo solito sorriso riaffiorò sulle sue sottili labbra. "Bene, questo è un ottimo segno Angelica. Quando i piccoli problemi quotidiani diventano il nostro grande problema, vuol dire che stiamo piano piano imparando a lasciarci alle spalle quelli vecchi." Oppure stiamo imparando a nasconderli, pensai. Ma la laurea in psicologia l'aveva presa lei, mica io.

"Il problema è che qui, Angelica, non stai propriamente superando il tuo problema... Lo stai solo evitando." Ecco, come non detto. "Sì beh..." Iniziai a difendermi, abbassando automaticamente lo sguardo sulle mie unghie dipinte di nero. "Evitare le cose te le fa anche dimenticare, no?" Mi sorrise. "Mi vuoi dire che se assaggi una buonissima torta al cioccolato e poi decidi di non mangiarla mai più perché ti fa ingrassare, un giorno riuscirai a dimenticarti di quanto fosse buona?" "Una torta al cioccolato? Sì, certo." Rialzai lo sguardo e lo incrociai con il suo. "Ma potrei ripensarci se la torta fosse alla ciliegia."

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