Capitolo 6

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Scesi le scale saltando due gradini alla volta. Quel tonfo, seguito dall'assordante rumore di un oggetto infranto, non lasciava molto all'immaginazione. Mio zio doveva essere caduto, aver rotto qualcosa e quindi essersi fatto male. E infatti, sembrava essere andata proprio così.

"Zio Emmett!" Mio zio ero steso a terra, con gli occhi chiusi e il volto rivolto verso il vecchio soffitto crepato. A terra erano sparsi diversi cocci di piatti, probabilmente scivolati dalle sue mani mentre camminava in salotto per apparecchiare. Piccole gocce di sangue sporcavano il suolo e sul suo braccio destro era ben visibile una ferita completamente aperta.

Rimasi pietrificata per qualche istante. Il riaffiorare di quel ricordo non poi così lontano fu inevitabile. La stessa identica situazione, solo in un altro luogo, in un altro giorno... e con un'altra persona. Bianco, azzurro, giallo... un respiro appena percepibile... ora immobile... silenzio... sirene... bagnato... dolore... macchina... dolore... buio.

Il suono del forno mi risvegliò da quel tunnel di pensieri. Ero in piedi, con i piedi incollati al suolo e lo sguardo ancora puntato sul corpo inerte di mio zio. Non potevo... non potevo lasciar riaccadere tutto da capo. Non poteva succedere di nuovo. Non potevo uccidere un'altra persona.

"Zio..." Con tutta la forza che avevo in corpo, riuscii a muovere qualche passo nella sua direzione. Lo guardavo dall'alto, chiedendomi se non fosse già morto... Ma no, non lo era, non poteva esserlo. C'era ancora tempo per salvarlo.

Mi catapultai dall'altra parte della cucina. Non puoi commettere lo stesso errore... Afferrai il cellulare di mio zio con mani tremanti. Non puoi lasciarlo morire... Digitai il numero dell'ambulanza. Non come tuo padre.

"P-pronto? Vi prego... Vi prego aiuto. Mio zio sta morendo."

∘ 〄 ∘

Per fortuna i soccorsi non avevano tardato ad arrivare; nel momento in cui l'ambulanza era arrivata di fronte a casa nostra, lo zio respirava ancora anche se, a detta dei medici, qualcosa nella sua circolazione sanguigna sembrava essere andato storto.

L'ambulanza ci aveva trasportati fino all'ospedale centrale di Londra. Purtroppo, a causa del ghiaccio sulle strade, il conducente aveva dovuto prestare molta attenzione alla guida e per questo motivo avevamo impiegato più di mezz'ora ad arrivare a destinazione. L'istante stesso in cui il motore dell'auto era stato spento, un'intera schiera di dottori era accorsa per prendere mio zio che era ora scomparso da diverse ore all'interno di una sala in cui non avevo il permesso di entrare.

Ero preoccupata? Sì, certamente, moltissimo. Ma allo stesso tempo mi sentivo tranquilla. Sì, non aveva alcun senso. Ma mi sentivo proprio così: tranquillamente preoccupata.

Da una parte sapevo che lo zio aveva appena rischiato la vita, e che ancora la stava rischiando. Dall'altra, però, non riuscivo a smettere di pensare che ero riuscita a prevenire il peggio... Che forse, alla fine, mi ero liberata di un peso che mi stavo tirando dietro da fin troppo tempo.

"Angelica?" Una voce ben conosciuta raggiunse le mie orecchie. Ero seduta nella sala d'attesa insieme ad altri adulti che, come me, quella mattina avevano saltato la colazione per ritrovarsi come per magia nella sala rossa di un ospedale.

"Signora Bloomleaf?" Non riuscii a controllare il tono di voce sorpreso. La mia psicologa, vestita con una pesante giacca nera e con i capelli color cremisi raccolti in un disordinatissimo chignon, si stava affrettando a grandi passi nella mia direzione.

"Oh cara, ho cercato di fare il prima possibile!" Il suo tono serio e per niente rassicurante fece scomparire in una frazione di secondo tutta la calma che fino ad allora ero riuscita a mantenere. Che cosa ci faceva qui, in ospedale, quando tutte le strade della città erano bloccate dalla neve? "Mi hanno chiamata poco fa. Sarebbe dovuto venire il signor Freyer visto che è il tuo psicologo comunale, ma vive lontano e con la sua macchina... oh, poca importa! Come stai?"

Ero letteralmente senza parole. Sembrava che qualcuno mi avesse appena strappato la lingua di bocca per annodarla e farne un bel fiocco. Non sapevo cosa dire, come risponderle, e infatti restai in silenzio.

"Oh certo, immagino che tu sia scombussolata... Vuoi una cioccolata? Non avrai sicuramente avuto il tempo di fare colazione stamattina." Continuai a osservarla, confusa. Perché avrei dovuto avere bisogno di uno dei miei psicologi in questo momento? Certo, non mi trovano nella migliore situazione possibile ma di certo non... O forse sì.

"Pensavate che avrei avuto una crisi di panico, non è vero? O forse addirittura un arresto cardiaco?" Il mio sguardo si fece feroce, le labbra iniziarono a tremarmi. Improvvisamente mi ritrovai in piedi. "Certo, la presenza di uno psicologo era assolutamente necessaria! Chissà, magari mi veniva voglia di buttarmi giù da un balcone, oppure di ingoiare qualche pillola in più!" Ora stavo urlando. Tutti gli sguardi erano puntati su di me, ma in quel momento riuscivo solo a vedere la signora Bloomleaf e i suoi occhi di vetro. "Perché non mi rinchiudete direttamente in un manicomio, forse fate prima, no? Sono un essere pericoloso, per gli altri e per me stessa! Avevate paura che avrei lasciato morire anche mio zio, eh? Dai su, dite la verità!" "No Angelica, ti sbagli, io non.." "Non mi importa, non mi interessa! Stai zitta o finirò veramente con l'uccidere qualcuno!"

Non ricordo con precisione ciò che accadde subito dopo. La gola mi bruciava, le orecchie mi fischiavano e gli occhi mi pizzicavano. Forse piansi; sentii qualcosa di bagnato scivolarmi sulle guance.

Quel che meglio ricordo è che presi la giacca e un guanto, l'altro rimasto indietro nella fretta, e mi fiondai verso l'uscita del pronto soccorso. Dopodiché, iniziai a vagare per le strade deserte di Londra.

∘ 〄 ∘

Avrei tanto voluto chiamare Oscar. In quel momento era l'unica persona a cui riuscivo a pensare. Ma non potevo, perché il mio telefono aveva fatto la stessa fine dei piatti che lo zio aveva lasciato cadere in cucina.

Faceva freddo e non avevo neanche un orologio per controllare l'ora. Doveva essere circa mezzogiorno perché i ristoranti attorno al parchetto si stavano piano piano riempiendo di clienti. Non avevo ancora fatto colazione ed era già l'ora di pranzo.

Ero stanca e confusa ma soprattutto triste ed arrabbiata. Eppure ero stata peggio. Sì, c'era stato un momento della mia vita durante il quale avevo sofferto molto di più. Almeno il doppio. E pensare che fossero passati solo dieci mesi da quel periodo mi faceva stare ancora peggio...

Ero sdraiata su un prato bianco, completamente ricoperto di neve fresca. Aveva smesso di nevicare già da un bel po' e ora il cielo si era riscaldato lasciando che il sole tornasse a sorridere alle persone. Sorrideva ai bambini che giocavano a tirarsi palle di neve e a costruire pupazzi, ai vecchietti seduti sotto il gazebo a leggere il quotidiano, a quel gruppo di ragazze che chiacchieravano allegramente tra di loro... Sorrideva persino ad una coppia di giovani adulti che si stavano urlando contro da circa mezz'ora.

Mancavano tre giorni a Natale. Il sole sorrideva a tutti, ma non a me.

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