Cap. II Angelo demoniaco Parte I

671 100 240
                                    

Malgrado i problemi dovuti alla mia schiena deforme, non ero mai stata una bambina debole o cagionevole di salute. Quando avevo quattro o cinque anni, avevo già imparato a camminare in modo tale da non contorcermi a ogni passo e a stare dritta il più possibile. Chi mi vedeva per la prima volta quasi non si accorgeva della mia malattia. Per tenere le spalle levate mi sforzavo talmente che smettevo di respirare.

Un piede davanti all'altro, lo sguardo fisso su un punto davanti a me, il mento leggermente alzato, a sette anni riuscivo sia a dissimulare a sufficienza il dolore che a celare il difetto fisico.

Ma, crescendo, il problema si era accentuato e il bustino che aveva creato il medico condotto del villaggio vicino al monastero, senza le conoscenze – o le capacità – del dottor Stheiner, si era rivelato quasi inutile.

Nel frattempo però ero diventata forte. La fatica fisica non mi spaventava, al contrario, mi spingeva a sfidare il dolore e riuscivo quasi sempre a vincerlo.

Facevo cose che nessun'altra educanda della mia età era disposta a fare.

Benché le monache tentassero di dissuadermi, spaccavo la legna sui ciocchi, attingevo l'acqua dal pozzo, svolgevo, insomma, lavori pesanti poco adatti a una bambina così piccola. Assolutamente sconsigliati a una bambina con i miei problemi.

Io stringevo i denti, sudavo, gemevo, ma portavo sempre a compimento ciò che intraprendevo.

Avevo cominciato quasi ad amare quelle fitte di dolore brutale che rispondevano ai miei sforzi fisici e a volte, quando non avevo alcuna mansione da svolgere, ero tentata di provocarmele di proposito. Ma sapevo che era sbagliato.

Non potevo sentirmi viva in quel modo.

Una volta abbandonato il monastero, avevo dovuto trovare velocemente una maniera per colmare il vuoto che la mancanza di lavori faticosi aveva lasciato. Il barone non mi permetteva di danneggiarmi le mani o di espormi al sole che, diceva, avrebbe rovinato il candore delizioso della mia pelle.

Così mi ero dedicata ad altre attività, molto più inconsuete ma tollerate, anzi, addirittura incoraggiate dal mio "benefattore": avevo cominciato a tirare con l'arco e a usare le fruste dei sorveglianti di schiavi come se avessi delle bestie da domare.

Stranamente il barone si divertiva a vedermi nella veste di domatrice di animali inesistenti e si stupiva favorevolmente per la mia capacità di scoccare dardi. Eccellevo in quelle attività come se nella vita non avessi mai fatto altro.

"Legge di compensazione", la chiamava il dottor Stheiner. Certe abilità dovevano poter compensare le difficoltà legate alla mia condizione fisica.

Insomma, l'Unico mi aveva fatto nascere imperfetta, ma mi aveva dotata di un'ottima mira, di sufficiente forza e di una straordinaria capacità di coordinare i movimenti.

Eppure a tutto c'era un limite e il mio era dato dal tempo: quando incoccavo la freccia e poi mi concentravo immobile per poterla scagliare, tutto doveva consumarsi in una manciata di secondi. Altrimenti il dolore mi avrebbe sopraffatta.

La stessa cosa quando maneggiavo la frusta: riuscivo a esercitare un controllo perfetto del mio corpo e delle mie mani solo per brevissimi istanti, poi dovevo rinunciare al proposito di usarla. Ma sapevo accontentarmi; nei miei giorni migliori riuscivo a spegnere la fiamma di una candela con un solo schiocco.

A parte l'arco, tuttavia, non avevo mai toccato un'arma vera.

Un coltello, una spada, una pistola...

Il barone si era ben guardato dal farmi avvicinare a uno qualsiasi di quegli oggetti dispensatori di morte, soprattutto dopo la prima volta che mi aveva trascinata nel suo letto.

Bloody WingsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora