5. Onde disperate

376 27 52
                                    

"Ho ancora gli incubi.
Anzi, li ho così spesso
che dovrei essermi
abituato a loro, ormai.
Ma non lo sono.
Nessuno si abitua mai davvero agli incubi".

Mark Z. Danielewski

Otto ore prima, studio Valenti

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.

Otto ore prima, studio Valenti.

Mi ero sempre chiesto come sarebbe stato rincontrarla. Avevo fantasticato sui miei sentimenti, sulla sua reazione e su quanto l'averla ritrovata avrebbe cambiato le nostre vite.

Nella migliore delle ipotesi, i nostri occhi si sarebbero specchiati gli uni negli altri e avremmo capito subito chi fossimo. Magari anche lei mi aveva cercato da sempre e aveva sognato di rivedermi.

Sarebbe scoppiata a piangere dalla gioia e io l'avrei abbracciata forte per stamparmi nella mente, nella pelle e nel cuore quel momento tanto sperato, tanto agognato, tanto concupito. Avrei respirato il suo profumo imprimendolo stavolta per sempre. Avrei continuato ad accarezzarle i capelli finché le sue lacrime non si fossero interrotte e mi avrebbe finalmente guardato con uno dei suoi dolci sorrisi. E, con un po' di coraggio, le avrei promesso che non l'avrei lasciata più.

Finalmente le nostre vite avrebbero riacquisito un senso. Io e lei, di nuovo insieme. Il passato che avrebbe ottenuto un futuro e per noi uno splendido presente.

Ma la verità era ben'altra. Non c'era stato nessun gioco di sguardi, lei non mi aveva riconosciuto e tutto si era fermato in un battito di ciglia freddo e scostante.

La verità era che... si era dimenticata di me.

Provai a rincorrerla prendendo le scale, pregando di raggiungere l'atrio prima dell'arrivo dell'ascensore. Magari se le avessi detto chi fossi, si sarebbe ricordata. In fondo, indossava ancora la collana con la conchiglia. Non poteva aver dimenticato tutto.

Dopo tre piani di scale, il fiatone e il cuore che impazziva nel petto, lei non c'era più. L'ascensore era stato più veloce ed era uscita dall'edificio ignara del mio inseguimento.

Con passo svelto e deciso, ripresi la mia corsa all'esterno e percorsi il viale fino al marciapiede che costeggiava la nazionale. La vidi lì, in attesa che le auto si fermassero per farla attraversare. Era il mio momento.

Più correvo, più lei diventava possibile, ma quando si gettò sulla strada per attraversare, un'auto che non l'aveva vista, inchiodò le gomme sull'asfalto fischiando spaventate. Emilia rimase indenne. Il veicolo non la sfiorò nemmeno, fermandosi in tempo. Era salva e lei se ne andò via proseguendo per la sua strada come niente fosse.

Dentro di me, invece, iniziò l'inferno.

Le gambe si bloccarono con forza. Le orecchie diventarono fuoco incandescente mentre gli occhi supplicavano di far smettere quel supplizio, si serrarono come se chiudendosi potessero smorzare il dolore lancinante. Le mani tremanti tappavano le orecchie a mo' di conchiglia con forza e paura.

Come Conchiglie sulla SabbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora