Capitolo 1. Il sogno nella stanza fredda

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Plic... Plic... è il ritmico e assordante suono delle gocce rosse che cadono sul pavimento dello studio di mio padre. Il rimbombo è forte, soverchiante, così tanto da sovrastare persino "Love me Tender" di Elvis che riecheggia sommessamente dall'impianto stereo montato sul mobile. "Love me PLIC, love me PLIC" fa la canzone, mentre guardo agghiacciato il rivolo di sangue fuoriuscire da uno squarcio nella tempia dell'uomo in piedi di fronte a me. Il liquido scarlatto disegna il suo corso lungo la guancia cinerea, raggiungendo il mento, dove si distacca dal volto per iniziare la sua lunga discesa verso il basso. Seguo la lacrima cremisi che cade, lenta, come al rallentatore, fino ad andare a esplodere contro il pavimento grigio. PLIC urla, scontrandosi con l'argilla della piastrella.

Alzo lo sguardo sulla persona che ho di fronte: mio padre mi osserva con occhi vitrei e lattiginosi. Mi fissa, immobile; le pupille all'apparenza cieche mi scrutano nel profondo e sento la paura artigliarmi lo stomaco. Voglio urlare, ma non riesco a fare nulla: sono immobile come una lapide e fisso il cadavere, incapace di distogliere la vista. La mascella gli s'incrina con un sordo schiocco e la bocca si distorce in un orripilante ghigno sghembo: vedo i denti neri e marci spuntare dalle gengive grigie. Noto solo in questo momento che tiene in mano una pistola: la superficie metallica dell'arma è ricoperta di sangue nero raggrumato.

«Never let me go,» canta la salma con voce gracchiante, in una macabra imitazione di Elvis. Alza il braccio che regge l'arma lentamente, a fatica.

«You have made my life complete,» rispondo con voce rotta. Mi accorgo che sto piangendo solo quando sento le lacrime che mi bagnano il volto. L'uomo punta l'arma contro di me, il suo sinistro sorriso accentuato.

«Til the end of time,» continua lui, azzardando un traballante passo in avanti. Una mosca gli si posa sull'occhio cieco e inizia a zampettare sulla cornea.

Vorrei scappare, ma non posso. So che è quello il mio destino, la fine che devo fare. Come tutte le notti, lui torna a ricordarmi dove vanno a finire tutti i membri della nostra famiglia.

La salma ha un singulto, la mano che tiene la pistola traballa, il dito posato sul grilletto si contrae.

Chiudo gli occhi e sento l'arma fare fuoco.



Leonardo Archi spalancò gli occhi e boccheggiò per trovare aria, l'eco dello sparo gli riempiva ancora le orecchie. L'ambiente intorno a lui era gelido e umido e, malgrado la vista offuscata, notò una nuvoletta di condensa manifestarsi davanti al suo volto. Stava sdraiato su qualcosa di duro, scomodo e ghiacciato; i muscoli erano rigidi e indolenziti, tanto che pensava non sarebbe riuscito neanche a girarsi sul fianco. Il freddo gli si era insinuato fin dentro le ossa, si sentì tremare lievemente e iniziò a muovere il capo per esaminare cosa ci fosse intorno a lui. Poi lo udì, vicino e chiaro come lo era stato nell'incubo: il suono di qualcosa che sgocciolava, come un rubinetto che perde. C'era forse un tubo rotto da qualche parte, non troppo lontano da lui, nella penombra del luogo in cui si era risvegliato e quel rumore fastidioso si era insinuato all'interno del sogno, modificandolo e rendendolo, se possibile, ancora più terrificante del solito. La vita reale era in grado di penetrare persino nel reame onirico, lasciando il suo segno anche nell'inconscio. Era triste pensare che nessuno fosse al sicuro dal mondo esterno, neanche quando dormiva.

Leonardo sbatté le palpebre un paio di volte per tentare di scacciare quella persistente sensazione di torpore; la vista ancora annebbiata non gli permise di scorgere nulla di definito, riusciva a vedere solo ombre e foschia. Era ancora sdraiato, ma doveva decidersi ad alzarsi e guardarsi intorno! Lanciandosi in uno sforzo fisico tremendo, riuscì a rotolare su un fianco e, infine, a mettersi almeno seduto sul gelido pavimento. Finalmente in grado di voltarsi, seppur con le membra indolenzite, Leonardo si rese conto di trovarsi in una grezza stanza, abbastanza ampia e illuminata soltanto da una singola lampadina che penzolava dal soffitto, appesa agli stessi cavi d'alimentazione; la pavimentazione era composta da grosse piastrelle grigie di un materiale metallico e le pareti, per quel poco che riuscì a mettere a fuoco, sembravano essere di nudo cemento. Si trovava all'interno di quello che doveva essere un vecchio edificio industriale, abbandonato e in disuso.

L'Attesa della SignoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora