02. Cappello

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Nascosta dietro la porta, sogghignava, in silenzio. Anche quel giorno aveva costretto la zia a giocare con lei, in quella casa così stretta e piccola su due piani, di un quartiere sgangherato di una cittadina ai confini della provincia.

Credeva di essere furba a celarsi dietro le pesanti tende della camera da letto, ogni volta. Come poteva la zia scordarsi lo stesso nascondiglio? Se lo chiedeva spesso, ma non poteva fare a meno di ridacchiare. Quando ad un certo punto lei scostava gli ornati drappeggi, allora ecco che poteva urlare e scoppiare in una risata fragorosa. Poi l'abbracciava, stritolandola forte e correva giù, di nuovo per le scale, pronta a ricominciare a contare, perché stavolta toccava a lei.

Tra un nascondiglio e un altro, poteva sentire il suo passo felpato e di un ritmo inconfondibile: avanzava lentamente, in modo cauto e mai frettoloso. Tuttavia, quando la sentiva fare un passo leggermente più agile, udiva di rimando un tonfo sordo sul pavimento, quasi sbadato e buffo e allora ancora, giù di risa e sghignazzi sotto i baffi, per non farsi scoprire.

Poi avvertiva il suo affanno e, un po', le faceva pena. Così la costringeva a sedersi con lei, su quel divano pezzato pieno di peluche a forma di cane, il suo animale preferito, e le chiedeva le sue storie, le più strane e divertenti che avesse mai sentito. Molto spesso i protagonisti erano animali: topi catturati da trappole faidate, colombe trovate morenti sul davanzale e perfino bastoni che si tramutavano in serpenti.

La sua preferita, tuttavia, era in assoluto quella della cicala, perché come lei, si era divertita a nascondersi alla vista di tutti. La zia raccontava che l'insetto era dispettosamente entrato in casa emettendo continuamente un suono assordante come "Cick cick cick". Le sue onomatopee erano tremendamente realistiche e, neanche a dirlo, divertenti al limite del possibile. Lei rideva a crepapelle e la spingeva a continuare: la cicala si era rifugiata dietro il suo armadio bianco alto e attaccato al muro, proprio quello che stavano osservando in quel momento. Allora lei, a quel punto della storia, si alzava e sbirciava la sottile fessura buia che separava il muro dal retro del mobile. Con grande delusione, non riusciva a vedere mai nulla. Aveva chiesto svariate volte alla zia come era riuscita a scorgere che la cicala fosse proprio lì, rintanata al buio. Ma la zia non glielo aveva mai saputo dire.

La storiella si concludeva con l'esasperazione che le provocava quel cicalio continuo e assordante e con la decisione improvvisa di volerne porre fine. Ecco, allora, che aveva impugnato l'insetticida e lo aveva spruzzato proprio lì, in quella crepa scomoda, sicura di poterla uccidere, finalmente.

Finita la storia, lei si sentiva sempre un po' svuotata, come se mancasse un pezzo essenziale nella narrazione. Come se un mago, alla fine del suo solito trucco di magia, non tirasse fuori dal cappello nulla, lasciando delusi gli spettatori. Poi, col tempo, si era abituata alla semplicità dei suoi racconti e aveva smesso di fare troppe domande. Arrivò anche il tempo in cui la zia non riusciva più tanto a camminare e anche momenti in cui lei, adolescente, preferiva non averla tra i piedi. Il suo nascondiglio preferito erano diventate le pagine di un libro e la cicala aveva preso una forma più reale, rispetto a quella stilizzata e verde da cartone animato.

Aveva lasciato sola la zia per troppo tempo: si era infragilita senza più risate né giochi. Qualcun'altro aveva preso a cercarla giorno dopo giorno e lei, con il suo peggiorato affanno, tentava invano di nascondersi.

Quando arrivò di notte, inaspettatamente, a prendersela, nessuno aveva sentito urlare "Per me, per tutti!". 

Quarantine's talesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora