07. Concentrato

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Era difficile scoprirlo più di trent'anni fa. Era quasi impossibile prevederne le cause per il primo. Ma per la seconda? Quanto erano stati egoisti a volerne a tutti i costi un altro sano?
E invece era andata anche peggio.

La osservava adesso, dopo ventisette anni, ricurva sul legno color avorio della sua scrivania: giocava con uno di quegli aggeggi ultra tecnologici e ogni tanto ridacchiava. Erano lontani i tempi in cui la forzava a stare sui quaderni, togliendole le matite dalle mani perché inevitabilmente diventavano i personaggi di una delle sue fantasie e la distoglievano dal dovere normale, quello di imparare, come tutti gli altri bambini. Le aveva comprato un cane, una piscina gonfiabile, i migliori giocattoli e organizzato, insieme a sua moglie, le feste più speciali che ogni bambino avrebbe voluto avere. Fino alle elementari era andato circa tutto bene: aveva molte amichette e i cugini riempivano spesso la casa quasi giornalmente e quegli anni erano passati in un battibaleno, senza apparenti pensieri sul futuro. Poi erano arrivate le medie e lì qualcosa era cambiato. La bambina, la sua bambina era stata rimandata. Denunce e ricorsi al corpo docenti non avevano cambiato le cose: sua figlia era nata ritardata, con una malattia genetica, identica a quella del fratello maggiore. In quel momento la cruda realtà era uno schiaffo a pieno volto, di quelli che rischiano di lasciarti un livido.

Aveva sognato una famiglia normale, sogno alimentato dal suo lavoro quotidiano, il maestro. La vita era stata crudele con lui: l'avrebbe costretto a guardare i progressi di ogni suo alunno e a constatare ancora di più i limiti e le differenze a cui doveva fare fronte invece quando tornava a casa.

Un giorno, tanto tempo fa, era sembrato normale. Avevano portato in vacanza due compagne di classe della figlia e una di loro era particolarmente sensibile alla sua condizione. La accarezzava e la abbracciava, sforzandosi di giocare con lei. La sua camminata poco armoniosa, data dal braccio sinistro penzolante, aveva per un attimo smesso di essere tale. Sembrava tutto così ordinario. Quel giorno si era rilassato e aveva pensato ad altro, per una volta.

Il ricordo si era offuscato quando aveva rivisto quella bambina, ormai adulta, correre spedita da una parte all'altra della strada, in ritardo probabilmente. La borsa, gli stivali e le onde ai capelli, gli occhiali da sole e l'aria da donna, la vera essenza che non aveva mai toccato sua figlia.

Eppure in quel momento, mentre la osservava sorridere, anche sotto la mascherina dell'ossigeno, con la sua bocca sbilenca, il soffitto sembrava stringersi attorno a lui, le mura agguantarlo e i quadri, stanchi di rimanere attaccati alle pareti, pareva volessero urlare anche loro che erano stanchi di quella vita così ingiusta.

Era stato così concentrato sulla sua insoddisfazione da non accorgersi di come le erano cresciuti i capelli e preso forma i seni. Poche volte la scrutava in viso, rarissime volte incrociava i suoi occhi azzurri. Immaginava quasi di non vedere i tratti ovali della faccia, come se la sua mente li confondesse appositamente, per difenderlo dal dolore.

Tuttavia, dopo aver visto come il virus l'aveva agguantarla e stretta nella sua morsa per giorni, la sua incondizionata voglia di vivere lo aveva spiazzato e costretto ad alzare gli occhi dopo tanti anni per fissarli nella cosa più imperfetta che avesse mai potuto immaginare di creare.

Si sciolse in un sorriso quando l'ultimo tampone risultò essere negativo e si sedette accanto a lei, concentrato sul suo volto, finalmente e abbracciando i limiti di una vita che, ingannevole e promiscua allo stesso tempo, minaccia di abbandonarti, sano o malato, donna o bambino, vecchio o atleta, chiunque tu sia, da un giorno all'altro.

Quarantine's talesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora