08. Loop

1 0 0
                                    

In quella soleggiata mattina di fine aprile aveva aperto il suo armadio, decisa finalmente a vestirsi in modo diverso. Era a casa da cinquantaquattro giorni, spuntati sapientemente e puntualmente con matita azzurra dal calendario, alle otto del mattino.

Dopo aver riposto la sua solita tuta pezzata, adesso era davanti alle ante del mobile, determinata a porre fine a quei giorni senza una personalità.

Scorse con gli occhi tutti i colori dei suoi pullover e si fece carezzare il volto dalle giacche appese dai colori tenui e dai dettagli preziosi. Poi, con la mano, tastò l'angolo in cui erano riposti i pantaloni, alla ricerca del paio di jeans nuovi, quelli che aveva comprato di recente ma che, data la situazione, non era più riuscita ad indossare.

Prese una maglia bianca a righe e fu immediatamente immersa da una brezza di quotidiana libertà. Guardandosi allo specchio, ora poteva dire di essere lei e di aver stravolto quel loop di giornate incessantemente lunghe, sempre uguali, identiche l'una all'altra.

Qualcosa stonava e l'occhio andò alle scarpe: aveva ancora le sneakers vecchie ai piedi. Sarebbe stato il caos di indossare gli stivaletti neri con il tacco che metteva per andare a lavoro in una giornata in cui tutto poteva fare, fuorchè uscire?

Intramontabile, il senso di inadeguatezza la investì, facendola sprofondare di nuovo nell'abisso della sua adolescenza. Ricordò quella sensazione che si ripresentava ad intervalli regolari, il più delle volte, e serpeggiava silenziosa tra la mente e il cuore, facendolo battere sempre un po' più forte. La riconosceva tutte le volte che si drizzava in piedi, prima di andare in bagno: chiedeva all'insegnante di alzarsi e già pensava che qualcuno le avesse squadrato le scarpe o il modo in cui aveva abbinato i suoi jeans alla felpa.

Si vergognava del suo abbigliamento. Si sa, gli adolescenti amerebbero mostrare la versione migliore di loro stessi e, molto spesso, questo non è possibile.

Perché al liceo tutto sembra così importante?

Lei questo non se lo chiedeva, perché aveva semplicemente quattordici anni. E delle scarpe bianche con delle molle gialle sui talloni. È vero, la scelta poteva sembrare un po' azzardata, ma era l'unico modello che la faceva sembrare naturalmente più alta, come una modella che aveva visto su di un giornaletto, in una una sezione dedicata alla personalità. Aveva ritagliato meticolosamente quella foto e l'aveva riposta dentro il suo armadio. La guardava tutte le mattine quando decideva cosa mettersi, ma niente, ogni giorno la stessa storia: non aveva niente di suo.

Così andava a scuola, avvolta nel suo giubbotto bordeaux appartenuto chissà a quale altra donna (perché quello non era certo il periodo giusto per acquistarne uno nuovo), sentendosi costantemente sempre più inadeguata.

L'inadeguatezza dell'abbigliamento l'aveva accompagnata per anni e alle volte, anche da adulta avvertiva la sensazione di avere addosso qualcosa che non la rappresentava.

Aveva sempre avuto le idee confuse al riguardo, dal momento che si sentiva totalmente estranea ai propri vestiti. Quasi metà del suo armadio era di proprietà altrui.

Erano quelli che la gente non metteva più perché passati di moda o quelli che avevano macchie che, seppur piccole, erano visibili. Erano vestiti vissuti, lavati chissà quante volte e protagonisti di chissà quali momenti, un loop di vite messe e rimesse, di volti senza espressione, di occhi vacui. Molte volte e per tutti gli anni della sua adolescenza, aveva vestito profili diversi e, inconsapevole, ne aveva abitato i mondi, uscendo dal suo.

Anni dopo si era resa conto di non essere in rado di scegliere cosa mettersi, perché qualcun altro aveva sempre deciso per lei. Alle volte ripensava ad un capo di vestiario in particolare: si trattava di una maglia grigia abbastanza corta per lei, ma l'aveva indossata comunque per tutta la durata della seconda e della terza media, anche quando il freddo pungente di febbraio le faceva battere i denti dietro i banchi di scuola. Era vecchia, rovinata negli orli, ma quella aveva e quella si metteva, parecchio spesso. Ad un certo punto, però, si costrinse a buttarla: le era cresciuto il seno e le lasciava scoperto l'ombelico.

Era diventata anch'essa inadeguata. Avrebbe dovuto ricercarne un'altra che le piacesse e non era affatto facile in quell'ammasso di pullover di colori stravaganti di taglie molto più grandi della sua.

Cosa poteva fare? Nulla.

Avrebbe assecondato quella situazione e continuato a vestire i panni degli altri, in un loop continuo di tessuti e colori sbiaditi, prestando attenzione a non urtare la sensibilità degli altri.

La sensibilità era il lato opposto della medaglia. Il lato buono? No. Per lei non lo sarebbe mai stato. Perché per molti anni, la sensibilità si era trasformata in insicurezza e l'insicurezza aveva perforato i meandri della sensibilità e così via fino a confonderla. Era la rete ingarbugliata di cose non dette mai, neanche per sbaglio. E lei era lì, con l'innocenza frenata, con lo sviluppo della personalità in pausa, come in pausa si mette lo stesso brano mp3 che hai ascoltato per ore ma che ti dà conforto lo stesso, perché la ripetizione e l'abitudine, nella vita di un uomo, sono gli unici porti sicuri.

Si osservava adesso, dopo più di una decade: molte volte si sentiva dominata, soffocata da pretese, quasi sopraffatta quando qualcuno le rivolgeva una proposta. Avvertiva che le richieste pungevano di un certo controllo che non aveva potuto frenare allora e che adesso la sua mente riconosceva.

Il dovere di fare qualcosa era un fantasma sempre presente e se ne accorgeva adesso, da adulta. Ora che doveva rimanere a casa da lavoro perché il virus aveva preso il sopravvento e stravolto la normalità del fluire dei giorni, le ritornavano in mente i ricordi delle vacanze solitarie, tra astio e silenzi spettrali in quell'appartamento così grande ma così privo di spazio; perfino la sua camera, soffocante di libri e suoni, era un bunker di pensieri e travolgenti speranze che non potevano avere via d'uscita, fuorchè una telefonata con le amiche o degli incontri sporadici a casa loro.

Tuttavia, il virus aveva posto fine al loop delle stereotipie comportamentali e aveva dato vita ad un nuovo spazio, una dimensione interna estremamente areata e più ordinata. Aveva incasellato i giorni e le categorie dei pensieri, rendendoli più sciolti, più vivibili, più intensi anche se vissuti senza la brezza mattutina del vento. Aveva imbiancato casa, lavato le tende, ripulito lo scantinato, buttato il superfluo. E aveva rimesso a posto l'armadio, fatto di vestiti solo suoi, puliti del senso di inadeguatezza che tanto l'aveva attanagliata negli anni. 

Quarantine's talesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora