𝑪𝒂𝒑𝒊𝒕𝒐𝒍𝒐 𝑰𝑰

269 22 54
                                    

Ero seduto scompostamente su una panca, vicino al trono di mio padre. Lui invece era seduto con le spalle dritte, il petto leggermente in fuori e lo sguardo fiero. Chi si fosse avvicinato avrebbe provato timore reverenziale verso questa figura simile a un dio. Ma se lo si osservava meglio si potevano notare delle piccole rughe attorno agli occhi, nate dai sorrisi. Sorrideva spesso Peleo di Ftia. Si cantavano storie sulle sue imprese, sulle battaglie combattute, sul suo matrimonio con la dea Teti, mia madre. Nell'unione dei miei genitori non c'era affetto, solo violenza. La mia nascita non era il frutto di amore: subito dopo il parto mia madre si ritirò nelle profondità marine, veniva a farmi visita solo una volta o due all'anno per accertarsi che mi fosse impartita un'adeguata educazione. Diceva che sarei diventato un eroe, il migliore dei greci.
«Il tuo nome sarà ricordato per millenni, non scomparirà nell'oblio come quello dei comuni mortali!» mi ripeteva sempre.
Sarei davvero diventato l'eroe più grande tra i Greci? Era una domanda che pesava sulla mia vita, come un macigno. A volte rimpiangevo di non essere un semplice mortale: la vita di un semidio si basava solo su questo? Gli eroi passavano l'intera esistenza a evitare di essere dimenticati, a cercare la gloria? Non riuscivo a capire tutta quella brama di potere e di una morte valorosa, a me non interessava scendere prematuramente nell'Ade, volevo godere appieno delle gioie della vita. Infondo non siamo tutti uguali nella morte, sia eroi che semplici umani?

Ogni volta che mi perdevo in questi pensieri, una leggera ruga si formava sulla mia fronte. Mio padre la notó, perché si protese verso di me e appoggiò la mano sulla mia spalla, in una stretta rassicurante.
«Cosa ti cruccia, figlio adorato?»
«Stavo pensando, padre»
«E quali pensieri turbano il tuo animo?»
«Stavo pensando alla vita dell'eroe. A volte mi chiedo cosa succederebbe se non fossi abbastanza bravo e non conquistassi abbastanza gloria: e se non fossi l'eroe che vi aspettate?»
«Achille, il tuo futuro è già stato scritto, preoccuparsi adesso è inutile. Sai, a volte fai pensieri molto più maturi dei tuoi tredici anni: saresti un grande filosofo.»
Sorrisi. Mio padre riusciva sempre a rassicurarmi eppure quelle domande erano sempre in un angolino della mia mente, come un predatore che aspetta nell'ombra il momento giusto per mostrarsi.

Il mio flusso di pensieri fu interrotto da un consigliere di mio padre, entrato a passo svelto nella stanza.
«Mio re, è arrivato l'esule figlio di Menezio»
«Fallo entrare»
Il consigliere uscì dalla sala e poco dopo entrò un ragazzino: avrà avuto circa la mia età anche se sembrava più piccolo nell'immensità della stanza affrescata. Teneva la testa bassa e gli occhi erano nascosti sotto ciocche di riccioli scuri. Subito si inginocchiò ai piedi del trono come farebbe un qualsiasi suddito, ma dal suo aspetto curato e dai ricami in filigrana dorata della sua tunica si intuiva che fosse un principe.
«Come ti chiami ragazzo?»
«Sono Patroclo, figlio di Menezio»
«Come ben sai da ora in poi non sarai più un principe, ma un esule uguale a tanti altri. I tuoi crimini sono gravi, lo capisci?»
Mi girai verso mio padre rivolgendogli una muta domanda "quali crimini?", ma lui stava attendendo una risposta e non incrociò il mio sguardo.
«Lo capisco, mio signore»
«Bene, puoi andare. Benvenuto a Ftia.»
Il ragazzo si alzò dal freddo pavimento di pietra e uscì dalla sala; non aveva alzato gli occhi neanche una volta e per una strana ragione desideravo ardentemente scoprire di che colore fossero e se il suo sguardo fosse intenso e penetrante o timido e sfuggente.

Quel pensiero mi tormentò fino alla lezione di musica. Appena le mie mani sfiorarono il legno lucido della lira, mi scordai di tutto. Nella mia mente, svuotata da tutti i dubbi e le incertezze, c'era spazio solo per la melodia che dovevo comporre. All'inizio le mie dita sfioravano le corde delicatamente, quasi come a non volerle sforzare troppo, poi il ritmo si fece più veloce, come il mare in tempesta, e non c'era corda che non vibrasse e producesse una melodia soave, ma anche un po' inquieta. La musica aveva l'abilità di svuotarmi di tutte le emozioni e trasferirle nella mia lira. Essa mi era molto cara: era stato un dono di un nobile venuto in visita presso mio padre ed era l'unico oggetto che mi aveva accompagnato durante tutta l'infanzia, fino ad allora. Ormai conoscevo a memoria la sfumatura chiara del suo legno e le mie dita avevano percorso i suoi intarsi milioni di volte.

Una volta finita la canzone mi congedai dal mio maestro e mi avviai verso la mensa: essa era piuttosto semplice, pareti e pavimenti erano di pietra, i tavoli erano sistemati in file ordinate in tutta la stanza, lasciando liberi dei corridoi per il passaggio dei servi, mentre ci si sedeva su semplici panche in legno. Quella sera il cibo consisteva in pesce alle erbe servito con pagnotte ai cereali. Terminata la cena, fu servita dell'uva che io e i ragazzi seduti vicino a me ci divertimmo a lanciare in aria e cercare di afferrare al volo con la bocca. Ero così concentrato a cercare di non fare rimbalzare i chicchi sul naso che non feci neanche caso al ragazzo bruno seduto al tavolo dietro al mio.

𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷 ~ 𖧷

Ushhh le cose si fanno interessanti :)
Che dite: Achille si sarà scordato del nostro Patroclo? Mi sembra ovvia la risposta, comunque ci vediamo al prossimo aggiornamento, byeee <3

~ sognatrice di libri

Half of my soulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora