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Nessuno ha mai saputo un cazzo di te e di quello che hai dentro. Nessuno sapeva dei problemi coi tuoi, la bulimia che non ti dava tregua, i tuoi demoni più nascosti.

L'ho saputo troppo tardi che ti bullizzavano a scuola, che quei bastardi all'entrata, un paio di anni prima, erano solo la punta dell'iceberg. Hai dovuto farti spingere dalle scale e romperti la testa per convincerti a dirmi la verità.

Sei stata in ospedale due giorni intanto che l'ematoma si riassorbiva e io credevo che sarei impazzito. Li sono andati a cercare – quei figli di buona donna dei miei amici mi hanno aiutato – li abbiamo massacrati di botte, Vale. Ho sfogato su quegli stronzi la mia rabbia più forte, la mia frustrazione, ho rotto il naso a uno e fatto un occhio nero a un altro, li abbiamo macinati, ma non è servito a un cazzo, perché tu eri ancora là dentro.

Combattevi tra la vita e la morte in un letto di ospedale anche spaccare tutto non serviva a riempire il vuoto che avevo dentro. Io mi aggiravo nel corridoio esterno come un animale ferito, i nervi tesi e le mani sempre pronte a tirare pugni, mentre mi si contorceva lo stomaco e dimenticavo di mangiare o dormire. Ho passato l'inferno, ma è andata anche peggio quando mi hanno detto che ti eri svegliata, ma non potevo vederti.

Mi sono presentato lì, e quella era la prima volta che tuo padre mi vedeva, con gli orecchini e gli occhi fuori dalla testa. Se avessi avuto un minimo di lucidità mi sarei vergognato di sbattere i pugni contro la porta in sua presenza, ma non era il mio caso.

Comunque non mi hanno fatto entrare e sono rimasto da solo con la mia frustrazione. Li avrei picchiato tutti, principessa, giuro. Avrei preso tuo padre a cazzotti, persino. Ero a pezzi, così i ragazzi mi hanno raccolto e mi hanno portato a casa, ma con la testa ero insieme a te.

Mi hai mandato un messaggio quella notte.

«Mi dispiace, Ale. Non volevo che ti trattassero male.»

«Come stai, principessa?»

«Mi sento come se mi avesse investito un camion. Scusa se mio padre ti ha cacciato.»

Ti sei sempre scusata per cose di cui non avevi colpa. Tu eri in un letto di ospedale, con un trauma cranico ancora in atto, e ti dispiacevi per me. Non sapevo se ridere o piangere, te lo giuro.

Ennesima notte insonne a pensare, poi mi sono deciso. La mattina dopo mi sono vestito per bene, ho fatto la barba e mi sono tolto gli orecchini. Con gli amici che mi lanciavano addosso insulti sono tornato in ospedale e mi sono presentato a tuo padre, di nuovo.

«Mi chiamo Alessandro e sto con sua figlia. Per favore, voglio soltanto vederla. Cinque minuti, mi conceda questo.»

Me ne sono fottuto del suo sguardo pieno di sufficienza, quando mi ha aperto la porta mi sarei gettato ai suoi piedi.

Tu mi hai visto e quando hai sorriso mi sono sentito svenire. Stavi male, male davvero, e mi è montata di nuovo la rabbia. Mi sono seduto al tuo capezzale e ti ho preso la mano. Avrei voluto baciarti, ma ai tuoi stavo già abbastanza sul cazzo. Eri un reticolo di tubi che facevano dentro e fuori dal tuo corpo e avevi una faccia così pallida che mi chiedevo se ti fosse rimasta una goccia di sangue nelle vene.

«Gliel'ho fatta pagare, principessa. Non ti toccheranno, mai più.»

Non credo di aver mai visto quell'espressione di sollievo sul tuo viso, prima d'allora. Mi si è stretto il cuore, ma mi sono arrabbiato, allo stesso tempo.

«Perché non me l'hai mai detto?»

Tu hai distolto lo sguardo e ti sei chiusa in te stessa. Hai sempre pensato che i tuoi problemi fossero soltanto tuoi e hai sempre sbagliato. Mi sono alterato e ti ho fatto un cazziatone per avermi mentito, ti ho rimproverata per avermi tenuta all'oscuro.

Sei scoppiata a piangere e hai fatto vacillare la mia rabbia. Ti ho preso di nuovo le mani e ti ho baciato le dita.

«Io ci sono per te, Vale. Sempre.»

Mi hai puntato contro un sorriso bagnato di lacrime e di nuovo, bang, dritto al cuore.

Mi hanno buttato fuori di nuovo, ma almeno sapevi. Messaggiavamo la sera, quando i tuoi andavano via. Ho fatto più ricariche in tre giorni che in tutta la vita, ma chi se ne fotte.

Quando sei uscita è stata dura vedersi, per un po'. I tuoi pretendevano che facessimo il fidanzamento ufficiale, ma io non sono tipo da queste cazzate. Abbiamo ricominciato a litigare e alla fine non hai più voluto vedermi.

Ho bestemmiato solo per un paio di giorni, poi sono venuto a prenderti a scuola.

Me la ricordo ancora la tua faccina sconvolta, ma anche sollevata di vedermi lì. Hai fatto la sostenuta, hai gridato e hai pianto, ma si vedeva lontano un miglio che non avevi finito con me.

«Mi mettono con le spalle al muro, Ale. Mi fanno vivere l'inferno.»

Mi hai abbracciato e dentro il tuo pianto mi pareva ci fosse tutto il male del mondo. Ti ho baciato come non avevo mai fatto, con la disperazione che mi divorava lo stomaco.

«Sei maggiorenne, Vale. Vieni a stare da me.»

Cazzo. Avevo parlato senza neanche pensare.

«Sì, Ale!»

Per poco i miei fra' non mi staccavano la testa. Mi hanno insultato, abbiamo litigato come mai accadeva da tempi delle elementari, ma alla fine ho vinto io, visto che ho il posto statale e da solo pago due terzi di affitto.

Sai cosa? Credo di aver parlato con il cuore in mano a tutti loro per la prima volta nella mia vita. E la cosa che mi fa più ridere di questa storia è che l'ho detto prima a loro che a te. Ho detto a quei bastardi dei miei migliori amici che ti amavo prima di trovare le palle di dirlo a te.

E sai cosa mi hanno risposto? Che ero uno sfigato. E io lo ero, uno sfigato, principessa, perché quando hai aperto la porta di quella casa con il tuo mazzo di chiavi e hai poggiato la valigia sul letto, non riuscivo a toglierti gli occhi di dosso. E quando mi hai abbracciato e hai pianto, io ti ho stretto forte e ti ho spostato i capelli dietro l'orecchio mentre sussurravo: «Sei a casa, principessa.»

Sempre stato innamorato di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora