𝟎𝟏

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ADDISON

La prima volta che si mette piede dentro lo studio di un terapeuta o più specificatamente di uno psicologo, la prima domanda che questo ti pone è: perché pensi di essere qui?

Inizialmente ci si sente fuori posto, non ci si aspetta di vedersi porse delle domande, ma piuttosto di poterle porre. Invece, alla fine, scopri che quella prima domanda non è altro che l'inizio di una meravigliosa conoscenza, lo stimolo che porta il paziente a farsi conoscere in tutto e per tutto dal suo medico.

Quella prima domanda scatena infinite altre domande alla quale seguono infinite risposte. Ti viene chiesto perché hai scelto di andare, perché in quel determinato momento della tua vita e perché hai scelto lui e non un altro professionista.

Eppure, tutto si riduce sempre e solo alla prima e all'ultima domanda: perché pensi di essere qui? Cosa stai cercando e cosa speri di ottenere da questo percorso?

Ecco, se avessi dovuto iniziare a fare la conta di tutte le volte che quelle domande mi erano state fatte, probabilmente avrei risposto semplicemente che, contarle sulle dita di due mani non era più possibile e che, alla fine, non aveva più molto senso tenerne il conto; perché avevo trovato il mio semi stato d'equilibrio, quello che non spingeva più mio padre a cercare i professionisti migliori, nel disperato tentativo di riuscire a portarmi via da quello stato mentale marcio dentro la quale ero ricaduta infinite volte.

Era bastata una telefonata, una vecchia conoscenza di famiglia, e io mi ero velocemente ritrovata seduta sull'ennesima poltroncina bianca, dentro l'ennesimo studio, dell'ennesimo psicologo. Ma esisteva un 'ma' e il mio era decisamente l'aver trovato la soluzione ai mali peggiori intenti a circolare come niente fosse dentro la mia testa.

Alla domanda: perché pensi di essere qui? Avevo risposto che la vita non era più il disegno felice che mani ingenue e fin troppo piccole si erano premurate di attaccare al frigorifero con una calamita a forma di margherita e, che se quella era la prospettiva del mio futuro, allora io desideravo non viverla.

Mentre, alle domande: cosa stai cercando e cosa speri di ottenere da questo percorso? Avevo risposto che la vita mi era sempre piaciuta e che viverla era l'unica cosa che io desiderassi più al mondo.

Perché, anche se quel disegno aveva perso colore, e io ero semplicemente cresciuta, lui era ancora lì, appeso a quel frigorifero con la stessa e identica calamita a forma di margherita.

Le sedute con l'ultimo psicologo erano state brevi, almeno nel mio caso. Il dottor Chad si era fatto un'idea ben precisa di me, già alla terza seduta aveva proposto l'immediato intervento di uno psichiatra, tutto ciò che mio padre non aveva rifiutato.

Io ero piena di vita, ma faticavo a riemergere.

Dunque, se in un primo momento lo psicologo ti pone delle semplicissime domande, in un secondo momento lo psichiatra te ne fa di specifiche, alcune talmente scomode da portarti a rivivere situazioni tragiche e pensieri illogici.

Una delle domande che lo psichiatra ti pone è: ti sei già sentito così altre volte? E se dallo psicologo ci si era sentiti fuori posto, dallo psichiatra cambiava tutto... ci si sentiva sbagliati, scomposti e consapevoli di avere qualcosa che non andava.

Lo psichiatra è diretto, alcune delle sue domande sono semplicemente crude, e pretende che le altrettante risposte siano crude.

Ti viene chiesto se hai mai preso farmaci? Non devi mentire.

Ti viene chiesto se hai mai pensato al suicidio? Non devi mentire.

Ti viene chiesto quante volte al giorno crolli, quante volte al giorno pensi di non farcela ad arrivare a fine giornata, quante volte ti senti soffocare e se hai mai pensato di avere bisogno di un ricovero immediato? Non devi mentire.

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