𝟏𝟎

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ARES

La chitarra adagiata sul pavimento, il diario ridotto in pezzi e la portafinestra leggermente schiusa, era ciò che i miei occhi avevano continuato a osservare per ben venti minuti, mentre me ne stavo seduto sopra la poltrona senza saper fare altro che non fosse ripensare alla sensazione orribile legata ai ricordi della notte trascorsa.

Le erbe della dottoressa Mary quella volta avevano fatto effetto, ma avevano anche reso l'incubo reale. Un comunissimo sogno era diventato la causa della mia asma, destabilizzandomi a tal punto da non riuscire a ragionare, da non ricordare cosa dover fare durante un attacco di panico.

Ero tornato indietro nel tempo a qualche mese prima, il palco sotto i piedi, la folla impazzita davanti e la band incredula alle mie spalle, mentre me ne stavo immobile come un burattino sorretto da fili così fragili che quella sera avevano ceduto sotto il peso del mio corpo.

Non essere riuscito a suonare la stessa chitarra che i miei occhi stavano osservando da venti minuti, aveva lacerato il mio cuore, portandomi a decidere di far togliere quella traccia dalla scaletta del concerto. Se avessi potuto evitare di farmi vedere in quello stato, be', l'avrei fatto, ma era accaduto e, ciononostante, ero riuscito a camuffare bene il tutto, giustificandomi dietro dei banalissimi crampi. Nulla di più falso.

Non meritavo di avere tutto quel successo, non meritavo di possedere nulla di ciò che avevo costruito con sacrifici e sudore, semplicemente perché sentivo che tutto quello non mi apparteneva più. Desideravo tornare quello di un tempo, ricominciare a scrivere, ricominciare a cantare in giro per il mondo ma, al tempo stesso, ero consapevole che quel desiderio non possedesse più alcuna fondamenta dentro al terreno.

Il fatto che Addison avesse pensato alle mie mani come un qualcosa di raro e prezioso, mi aveva fatto sentire lusingato ma, allo stesso tempo, avevo provato quella stessa sensazione di oppressione legata al fatto che io non riuscissi più a creare arte, non come avrei voluto.

Il piede impazzì contro il pavimento, le gambe tremanti, il respiro corto e l'ennesimo attacco d'asma pronto a sopraffarmi. Avere ventisei anni e sentirsene addosso il doppio, senza riuscire a vedere un futuro, senza riuscire a trovare un modo per poter continuare a sopravvivere a quella vita che non mi soddisfava più. Era stato un grave errore, credere che abbandonare tutto fosse stata la soluzione, perché la chitarra era ancora lì e le mie mani non erano su di essa.

Presi un respiro profondo e fermai il tic irrequieto delle mie gambe per poi tirarmi su dalla poltrona e dirigermi verso la portafinestra schiusa, un leggero venticello mosse la tenda e io non potei fare a meno di pensare ad Addison, ai suoi occhi attenti e preoccupati, mentre quella stessa tenda le nascondeva il corpo esitante.

Sorrisi a quel ricordo e mi chinai in basso verso il pavimento, la mano destra afferrò il manico della chitarra mentre la sinistra raccolse il diario con l'unico intento di far sparire quegli oggetti dalla mia vista.

Così, senza perdere altro tempo feci un veloce giro su me stesso e mi diressi all'armadio, pronto a richiudere al suo interno ogni briciolo del mio dolore. Nel momento in cui arrivai davanti al mobile, allungai la mano intenta a reggere la chitarra e tirai, aiutandomi con il dito indice, la maniglia argentata di quest'ultimo. In quel momento, mi resi conto che realmente la mia mano destra non versasse in condizioni del tutto ottimali. Ripromisi a me stesso di ringraziare Addison per essersi offerta di prendersene cura. L'anta bianca scivolò presto verso destra, le maniche di alcune camice appese si mossero dolcemente grazie al soffio dovuto al movimento improvviso, allungai il braccio sinistro e adagiai sullo scaffale a metà armadio il diario e la chitarra.

Poi richiusi l'anta e misi in ombra quel capitolo della mia vita; senza guardarmi alle spalle, ripresi a camminare per dirigermi alla porta, pronto per andare a cercare qualcuno con cui poter parlare di tutto quel casino.

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