2. Il misterioso zio

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  • Dedicata a a Davis
                                    

-Ma cos...- alzai le palpebre per tre volte, cercando di focalizzare ciò che avessi attorno a me: una schiera di  medici e di infermieri cercavano di capire cosa mi fosse successo, o non saprei dato che mi ero svegliata in quel momento. Odiavo la puzza degli ospedali, ero  inondata  da quel "profumo" di anestetici e di persone malate, ero nel purgatorio.

Ma non doveva importarmi quello, doveva importarmi il fatto che ero in ospedale con delle bende che mi circondavano il capo e un ago infilato nel braccio sinistro. 

E poi ricordai, ricordai mio padre, cosa mi aveva fatto... -Signorina, come si sente?- sbucò da chissà dove questa bionda tinta di una infermiera. Dio, mi stava già sulle scatole, magari per quella voce stridula che emetteva da quelle labbra troppo fini che pareva essere una civettuola.

-Sono esausta...- e lo ero, dato che avevo le ossa che non ne volevano sapere di scappare e lasciare quell'ospedale. 

L'infermiera controllò i miei parametri e il mio capo, e poi mi assalì una domanda: Chi è stato a portarmi all'ospedale?

Di certo non mio padre, lui mi lasciava nella mia stanza ogni volta che mi aveva picchiata e massacrata a dovere.

-Mi scusi, chi è stato a portarmi qui?- Bene, anche la mia voce era stridula come quella di un gabbiano e di un'aquila rapace con le ovaie distrutte. 

-E' stato suo zio...- disse con una sorriso appena accennato. Mio zio? Ma se mio zio morì quando io non ero ancora nata!

-...e suo padre è andato in carcere- mi spiegò. Non le credetti, mio padre non si lasciava mai prendere dalla polizia, neanche quando rubò a quella gioielleria 3 anni fa. Ditemi che sto sognando...

Sono passati due giorni ed io adesso potrò ritornare a casa a capire cosa diamine era veramente successo. Lasciai cadere le gambe sul pavimento liscio e freddo, mi ritrassi al solo contatto per poi mettermi le scarpe. Non avevo le calze, oramai ero abituata a graffiarmi i piedi contro la suola schifosa delle scarpe, anch'esse ridotte a brandelli per averle usate per ben più di 5 anni.  

Mi alzai e  accennai un sorriso all'infermiera che mi aveva curata, non sapevo il perché ma le volevo bene nonostante avesse quella voce stridula. La salutai ed uscii dall'ospedale. Decisi di camminare fino a casa, ne avevo proprio bisogno. Gli arti si erano irrigiditi per ben due giorni e il mio capo aveva sempre la benda, non avevo nessun taglio, solo un bel bernoccolo. 

Le strade erano sempre le stesse, piene di buche, nere schiacciate dalle auto che passavano indifferenti. Una pianta cercava di dimostrare la sua rigidezza davanti a tutto quello che le passava e si ergeva sul lastrico del marciapiede. Mi scappò un sorriso, ero come quella pianta ma subivo tutto quello che mi passava davanti. 

Dopo non molto arrivai al cancello gracchiante della mia villa, una villa cupa e coperta dalle foglie cadute dagli alberi, accumulatesi per anni e anni. Entrai in casa e scoprì che non solo non era vuota... ma tutto aveva assunto un altro colore: le pareti erano state imbiancate e i mobili rimodernati.

Ma cosa stava succedendo qui?

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