Cap. IX "E la neve cade..."

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Minho si avviò su per il viottolo che menava alla palestra con passo sostenuto. Quella mattina si sentiva traboccante di energia, la decisione definitiva di tornare in America gli aveva migliorato l'umore, avrebbe rivisto i suoi amici, il maestro, la scuola di arti marziali, sarebbe tornato alla consueta vita che amava.
Si sarebbe concesso qualche giorno per salutare Hinata, il maestro e via, sarebbe partito, lasciandosi alle spalle una volta per tutte la sofferenza che il padre gli aveva procurato. No, non sarebbe andato a salutarlo, non dopo la scenata di quella sera. Il suo cambiamento era stato solamente una farsa, in verità ancora covava odio nei suoi confronti da quell'incidente. Non meritava di essere perdonato.
Era venuto a sapere dalla sua segretaria che sarebbe stato dimesso dall'ospedale l'indomani. Ma lui contava il giorno dopo o quello dopo ancora, di salutare tutti e andarsene senza nemmeno che il padre venisse a saperlo. Sarebbe uscito dalla sua vita per sempre.
Non gli restava ora che saldare i conti con quell'insolente, e lavorare le rimanenti ore per compensare il costo del viaggio di ritorno. Sarebbe stato un buon metodo per mettere alla prova quello che aveva fin'ora imparato; Taemin era un avversario temibile, di una cintura superiore alla sua, avrebbe sicuramente faticato a batterlo, ma avrebbe messo il massimo impegno per dare una lezione alla quell'arroganza sfacciata.

Il cielo terso di un azzurro perlaceo accendeva i colori delle rose ai lati della via e il sole mattutino gettava tiepidi raggi tra i muri sbrecciati delle case, riflettendosi nelle pozze gelate tra gli incavi dell'asfalto.
La Corea: Minho respirò a fondo l'aria frizzante del paese natio, gli sarebbe mancata, doveva ammetterlo, i suoi colori, gli usi e costumi non ancora soffocati dalla modernità, i profumi, la sua gente, l'aria di casa, quel cielo, quelle stelle, quella pioggia, quella neve; Il ricordo di sua madre che gli camminava accanto, calpestando le stesse pietre, il medesimo asfalto, si sarebbe lasciato alle spalle anche quello. Era tempo di ricominciare, di costruire il proprio futuro.

Raggiunse i cancello che dava sul giardino dinnanzi la palestra: era socchiuso, Taemin doveva essere arrivato prima di lui. Difatti, avviatosi sul viale di porfido, lo scorse attraverso i rami di ulivo, intento ad aprire la porta della palestra.
Il sole incendiava i suoi capelli argentati mentre si chinava a sbloccare la serratura, indossava già la divisa di arti marziali.
Minho si avvicinò in silenzio e gli parve che l'altro non si fosse accorto della sua presenza. Allora si fermò attendendo che varcasse la porta, ma Taemin invece di entrare, sostò all'ingresso, sollevando il capo di lato, verso il sole, lasciando che i raggi gli illuminassero il viso. Chiuse persino gli occhi, come volesse riscaldarsi al loro tepore.
Una leggera brezza gli scompigliò i capelli facendoli danzare attorno alle pallide gote. Le sue belle labbra si socchiusero quasi sul punto mormorare qualcosa, senza tuttavia emettere alcun suono. Minho ancora una volta non poté evitare di stupirsi per la sua bellezza, si rese conto di non aver mai visto un ragazzo i cui lineamenti sfidassero così scrupolosamente la naturale dicotomia tra maschile e femminile. E ora in quella posa, in quell'attimo, la cui durata non seppe nemmeno calcolare, la sua immagine penetrò nuovamente dentro di lui, come la lama affilata di un bisturi che gentilmente trafigge la carne.

Ad un tratto con una lentezza tale da inchiodarlo al suolo, lo vide girarsi e posare i suoi occhi scuri su di lui. Erano vuoti quegli occhi come due baratri senza fondo. A Minho parve che i metri che li separavano fossero nulli e che l'altro potesse, nel giro di un attimo, attirarlo e fagocitarlo nel suo vuoto oscuro. I suoni attorno sembrarono affievolirsi e scomparire, come sospesi nella stessa vacuità dei suoi occhi. Senza riuscire ad opporre resistenza, Minho seppe di essere stato scelto, lui tra milioni di esseri umani, in quel preciso istante, senza il proprio permesso. Qualcosa dentro di lui parve spezzarsi e senza che lo volesse il suo cuore cedette all'assalto di quei sentimenti. Divenne proprietà di qualcuno, nonostante la sua mente, le sue credenze, la sua volontà gli urlassero di non cedere.

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