Cap. XI "A quale appello rispondere?"

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Gli avventori del chiosco voltarono all'unisono il capo verso il giovane seduto all'angolo del tendone arancione, picchiava la testa ripetutamente sul ripiano del tavolino, sommerso di bottiglie di soju completamente vuote. Alcuni si limitarono a scuotere la testa, altri si alzarono e uscirono seccati dall'insolito rumore, l'unica a rimanere indifferente fu la proprietaria del pojangmacha, assai abituata a quel genere di clientela.

Jungkook non smise di sbattere la fronte, fin quando il dolore, unito all'effetto dell'alcool, non gli spense i ricordi di qualche ora prima. Gli rimase un senso di vuoto gravante sul petto e la disgustosa sensazione di star fuggendo per l'ennesima volta. Afflosciò la testa sul tavolino completamente esausto, i pensieri galleggianti, come rifiuti in balia della corrente, senza alcun senso logico che li supportasse.
S'addormentò pochi istanti dopo.

Allorché aprì gli occhi, il locale era deserto e dalle finestre in plastica, nel cielo terso della capitale, si intravvedevano i primi bagliori dell'alba. La proprietaria non c'era, probabilmente era andata via pure lei, esasperata dopo aver cercato inutilmente di svegliarlo. Rise con amara ironia quando notò un biglietto sul ripiano del tavolino, con su scritto: "mi sono permessa di prendere il conto dal suo portafoglio, buona serata".

Si alzò a fatica, un dolore lancinante alla testa, rabbrividendo per il freddo penetrato nel chiosco.
Raggiunse a stento l'uscita e si affacciò fuori dal telone di plastica.
Il fiume cheonggyecheon scorreva placido cullando l'atmosfera col suo dolce scroscio, tra le fronde degli alberi si sentivano cantare gli uccelli; un oasi di pace per gli abitanti della metropoli, non per lui, non quella mattina.

Lasciò il riparo del tendone per inoltrarsi lungo il viale alberato. Barcollava per gli effetti non ancora svaniti dell'alcool, mentre i pensieri lo aggredivano insistentemente come avvoltoi desiderosi di banchettare con quel poco di sanità mentale rimastagli. Perché stava impazzendo, era questa la verità: i sensi di colpa, la terrificante sensazione di aver sprecato tempo, pensieri, ricordi, la propria stessa vita, assediavano il suo spirito già sconfitto in partenza.
Non aveva mai lottato per ciò in cui veramente credeva, aveva sempre assecondato il volere della famiglia, non era riuscito a costruire niente di suo, era andato alla deriva come un cadavere in balia della corrente, senza mai una volta impugnare il timone e scegliere una direzione.
Ad ogni passo che eseguiva, gli pareva stesse sollevando con le gambe un macigno, eppure continuò ad avanzare senza curarsi della direzione.

La brezza mattutina gli carezzava i capelli con una gentilezza che quasi lo disgustava, avrebbe preferito un vento sferzante, che lo travolgesse, lo scuotesse, lo punisse. Quell'ipocrita tocco non era che un'irrisoria presa per il culo.
Odiò gli alberi, la cui dolce ombra screziava il marciapiede, odiò il canto soave dei merli e dei passeri sui rami spogli, odiò la donna con l'impermeabile che sorrideva estasiata al telefono, la risata argentina del bambino che accompagnava la madre a portare a spasso il cane, odiò la stessa metropoli, che si destava, deridendolo col suo nauseante grido alla vita.
Non c'era pace per lui, non c'era felicità, non c'era amore, li aveva gettati via lui stesso negli squallidi cassonetti della sua giovinezza. Non gli rimaneva ora tra le mani che la sporca pattumiera dei suoi fallimenti.

Gli effetti dell'alcool stavano quasi svanendo, quando vide alla sua sinistra delle strisce pedonali. Decise di attraversarle, fermandosi sul bordo del marciapiede in attesa che scattasse il verde.
La luce del semaforo cambiò o almeno così gli parve, perché non appena si inoltrò in mezzo alla strada, un coro di clacson gli frastornò i timpani. Non fu tuttavia in grado di arrestare le proprie gambe, non si voltò nemmeno per controllare le auto che gli sfrecciavano attorno. Gli parve di star galleggiando tra realtà e finzione.
Il rombo dei motori sembrarono smorzarsi come in un sogno, con essi s'acquietarono i pensieri, s'ovattarono i sensi e la pace lo chiamò gentilmente, soavemente.
Ne rimase ammaliato, là non cerano nulla che potesse tormentarlo, solo un immenso e abissale silenzio.

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