Os #14

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Uno dopo l'altro, Shira contava i secondi.
Un dito meccanico le ballava sul fianco, scandendo ogni attimo.
La sua mente faceva schemi rapidi, controllava ogni cosa, ogni singola piccola vite deforme che suo fratello aveva scaraventato al suolo.

Diecimila e seicento e trentaquattro pezzetti di metallo ormai inutilizzabili erano sparsi sul pavimento liscio della sua stanza.
Li aveva contati tutti, per poi passare a osservare se qualcuno era rimasto normale, decidere come raccoglierli, dividere quelli irreparabili da quelli che avrebbe potuto aggiustare, mettendoli mentalmente in delle scatole diverse a seconda della forma che avevano assunto per via del talento di Andrej.

Lord Andrej, si corresse quasi automaticamente nella sua testa.
Pochi minuti prima l'aveva chiamato in quel modo, Andrej.
Lui aveva trovato immensamente divertente usare il suo talento per rendere inutili le sue viti e gettarle sul pavimento, come tanti piccoli chicchi di riso tintinnanti.
Sorrideva mentre lo faceva.
Sorrideva sempre quando faceva una cosa simile, prendendosi gioco di lei, sapendo che il disturbo ossessivo compulsivo per l'ordine l'avrebbe portata a impazzire rimettendoli a posto per tutta la notte.
Voleva torturarla con la mancanza di sonno.
Adorava fare quel tipo di cose, sin da quando erano piccoli.

Inginocchiata a terra osservava la forma delle viti, distribuendole in piccoli mucchi ordinati.
Inutili.
Erano tutte inutili.

Tic, tic, tic.

Il rumore si diffondeva nel silenzio atroce della camera.
Le due dita metalliche si muovevano rapide e precise, mentre la sua testa continuava ad elaborare schemi, schemi su schemi, senza fermarsi mai, coi muscoli tesi, come in attesa di essere attaccata, le orecchie pronte ad udire il minimo rumore.
Sapeva che nessuno sarebbe entrato.
Nessuno era lì con lei.
Eppure il suo corpo rimaneva sul filo del rasoio, coi nervi a fior di pelle, pronta a scattare come una molla.

Tic, tic, tic, facevano le viti sbattendo le une contro le altre, contro le sue dita metalliche.

Il corpo le faceva male, pulsandole dolorosamente sulla schiena e sulle ginocchia, e poi in corrispondenza delle nuove ferite.
La testa le scoppiava.
I muscoli erano a pezzi.
Si impose di continuare, per quanto il suo corpo fosse allo stremo.
Continuare sino a che tutto non fosse stato perfetto.

La Luna fuori dalla finestra illuminava la sua figura troppo alta ingobbita a raccogliere i piccoli frammenti deformi, sul pavimento, sotto la scrivania, il letto, la cassettiera, l'armadio, per poi depositarlo nel gruppo corretto, con un piccolo rumore tintinnante.

Tic, tic, tic.

Il suo equilibrio del sonno era calcolato per permetterle di riposare il corpo a sufficienza per poterlo nuovamente distruggere di fatica il giorno dopo.
Quel piccolo scherzetto di Andrej le sarebbe costato sin troppo in termini di allenamento e riposo.
Si disse che andava bene.
Poteva sostenerlo.
Le sarebbe bastato fare dei nuovi calcoli, avrebbe trovato una soluzione per riportare tutto perfettamente a posto.

Tutto ciò che faceva era perfettamente calcolato.
I calcoli le piacevano.
Erano utili.
Erano affidabili.
Erano perfetti.
Non erano come le persone, inaffidabili e passeggere, non avevano difetti, non dovevano essere capiti.
I calcoli potevano essere solo giusti o sbagliati.
Non c'erano altre possibilità.
I calcoli davano certezze e perfezione.

Shira calcolava sempre tutto, ogni secondo, ogni attimo della sua vita, ogni cosa che vedeva veniva calcolata.
In quel momento le viti raccolte erano divise in dodici gruppi, ognuno contenente un numero di viti variabile fra le mille e le milletrecentododici, tranne uno che ne aveva solo settecentotrentatre.
Aveva sbattuto le palpebre ottantacinque volte le palpebre da quando il fratello era uscito.
Il suo cuore andava ad una velocità di settantasette battiti al minuto.
Respirava con una regolarità di sei secondi tra una presa d'aria e l'altra.
Calcoli, calcoli, calcoli.
Viveva di calcoli.
Non riusciva a farne a meno.

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