𝖯𝗋𝗈𝗅𝗈𝗀𝗈

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꧁ Kaori ꧂

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Kaori


Nelle qualificazioni di pallavolo femminili ai Giochi Olimpici, eravamo giunte ultime. Undicesimo posto, per essere precisi.

Rammentavo tutt'ora il timore di commettere un errore, la paura di fallire, il senso di insoddisfazione nel partecipare da ultima squadra nella classifica.

Ero la punta di diamante della mia squadra nonché il loro capitano. Le ragazze si affidavano alle mie schiacciate come se le battessero loro. Grida di rabbia e speranza si propagarono in tutta quell'area viziata e pertinente, ma sufficientemente piccola per contenere dodici persone su un campo.

Le Mad Dogs, la squadra femminile statunitense, si trovavano a due punti di distanza dalla nostra squadra, Tora. Mancavano altri tre punti alla vittoria e in quei minuti di disperazione, ma al contempo, di contentezza per l'obiettivo conseguito, diventò estenuante. Ultimo set. Le urla dei tifosi di ogni squadra mi giunsero alle orecchie come un filo di ovatta bagnata.

Non potevo lasciarmi distrarre.

La partita non era finita.

La responsabilità che avevo nei confronti della squadra era di non farmi sopraffare dal panico e continuare a svolgere il mio compito con lucidità. Loro si fidavano di me. La palleggiatrice dei Mad Dogs si chiamava Angel Robinie: aveva un grande potenziale. Il suo ruolo era di battitore opposto, ossia difendere al muro e attaccare, in modo veloce e polivalente.

In poche erano in grado di bloccarne le mosse, ma come capitano avrei concentrato la mia energia per portare la Tora alla vittoria.

Il vecchio rebus di mio nonno recitava spesso: «Non esiste gioco che non si possa vincere, e non esiste gioco che si possa vincere di sicuro.» Ma lo volevo. Esigevo e chiedevo la vittoria.

Qualsiasi sia il prezzo da pagare, ripetei a me stessa come un mantra.

Angel Robinie tirò la palla per aria e con una gran rincorsa ed un salto prolungato, batté la palla nel nostro lato del campo. Urlai alla mia compagna di squadra che la palla avrebbe curvato in sua direzione e nemmeno il tempo di riflettere sul da farsi, quest'ultima la anticipò - di un pelo - col bagher.

Alla seconda pressione, la palleggiatrice della Tora, di spalle, mimò il numero tre con medio, anulare e mignolo. Feci un sorriso, consapevole che la ricevente dell'alzata sarei stata io.

Presi a correre il più possibile e la palleggiatrice levò la palla con delicatezza, accarezzandola come fosse una piuma. Il contatto leggero, più fluido, passò ad una velocità pari a 0,1x in un lento moto dotato di stile. Balzai in aria, mirando al punto centrale dell'area avversaria in cui colpire. Il braccio si mosse da sé, la mano gonfia e arrossata dalle troppe digressioni subite nell'ultima ora si preparò a impattare la palla.

Tuttavia, la sensazione di terminare la partita divenne il peggior incubo di tutti i giocatori. Sarà successo anche per distrazione o per eccesso di pessimismo, ma ebbi la sensazione che quella fosse stata la mia ultima gara: Nezero Kujii, attaccante laterale, saltò nello stesso momento e ci trovammo a roteare entrambe gli occhi di fronte all'errore compiuto.

Ace: The number one. [Haikyuu!!]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora