Tango della paura

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Se vi sforzaste di immaginare il modo peggiore con cui possa iniziare una storia d'amore, non riuscireste nemmeno a concepire quel che è successo a me.
Eppure non sono il tipetto che, come si dice, se le va a cercare: devo essere una specie di calamita attira-guai, o qualcosa di simile.

E dire che mi avevano prospettato "una seratina rilassante", quando avevo accettato di partecipare all'addio al nubilato di Giusy. Una festicciola tra donne, senza grandi pretese, nella sua casa al mare a Camerota, la stessa in cui trascorrevamo i nostri fine settimana d'estate da adolescenti. Oltre a me, a Sara e a Veronica, sue amiche d'infanzia fin dai tempi della scuola elementare Matteo Mari, e volontarie al centro anti violenza, c'erano anche le sue colleghe avvocatesse del tribunale di Napoli. Principesse del foro, altolocate e danarose, i cui abiti firmati aderenti dalle scollature vertiginose e dalle gonne cortissime sembravano fatti apposta per far sfigurare i nostri semplici abitini estivi; donne perfette nei loro fisici scultorei e nel loro trucco impeccabile, parlavano da esperte di burlesque e di danza del ventre. Il "trio della Matteo Mari", in ogni caso, era riuscito a guadagnarsi la sua brava dose di attenzione, non solo grazie a tutti gli aneddoti sulla futura sposa che tiravamo fuori dai nostri cassetti dei ricordi, ma alle nostre speciali pizze a metro, cotte nel forno a legna del suo giardino che ormai conoscevamo come le nostre tasche, e ai nostri cocktail "a tema". Per quella sera avevo riesumato quello "dello stagno" che mia madre preparava alle mie festicciole di compleanno quando eravamo bambine: soltanto, "rivisto" con qualche goccia di cachaça per renderlo più adatto a un pubblico adulto, senza esagerare, nessuna di noi voleva alzare troppo il gomito quella sera.

Stavamo appunto sorseggiando il nostro cocktail allo sciroppo di kiwi, e la mezzanotte doveva essere già passata da un pezzo, quando sentii suonare il campanello. Andai ad aprire, avevo avuto esplicitamente l'incarico da Giusy. Pensai che dovesse essere qualche altra insigne ritardataria: ce n'era già stata più di una quella sera.
Invece mi ritrovai lo spazio della porta invaso da due uomini alti e robusti con la divisa estiva della Polizia di Stato. Non chiedetemi il grado, non sono mai riuscita a distinguere.
- Buonasera. Lei abita qui? – esordì quello più avanti, più o meno della mia età, un pezzo d'uomo non molto più alto di me, ma che a vederlo sembrava il doppio.
- No, - balbettai cercando di mantenere un contegno dignitoso, ma già le gambe cominciarono a tremarmi. La polizia a quell'ora di notte? Cosa poteva essere successo? – Qui c'è una festa, sono un'amica della padrona di casa.
- Nome e cognome, prego.
- Annalisa De Simone, i documenti ce li ho nella borsa. Ma... posso sapere cos'è successo?
- Controllo di routine, ci è arrivato un esposto per rumori molesti, – tagliò corto l'uomo. Il tono era secco, deciso: tra i due doveva essere lui quello che comandava. – Dovrei parlare con la padrona di casa.

Li feci entrare, feci loro strada verso il giardino, mentre mi domandavo cos'avessimo mai fatto tanto da essere denunciate per "rumori molesti". Il più giovane parlava con Giusy, lei gli mostrava la sua carta d'identità. Stranamente, le sue colleghe rimasero sedute, impassibili come non stesse accadendo niente, anzi, bisbigliavano tra loro con risatine maliziose: be', sono avvocati, mi dissi, hanno tutti gli assi nella manica per venire fuori da qualunque situazione.

Io, Veronica e Sara, invece, non eravamo tranquille per niente.
- Qualcuno ha fatto entrare della droga qui? – bisbigliai all'orecchio di Sara.
- Non credo, - rispose lei senza staccare lo sguardo dai due agenti.
Quello con cui avevo parlato si accorse del nostro dialogo.
- Cosa state bisbigliando laggiù?
Prontamente gli riferii il contenuto della conversazione, non avevo niente da nascondere.
Eppure il poliziotto continuava a fissarmi da sotto la visiera del cappello, come avesse puntato proprio me.
- Sbaglio o mi aveva detto di avere i documenti nella borsa?

Cominciai a sudare freddo, la borsa non era sulla sedia. A un tratto mi ricordai di averla lasciata nella stanza degli ospiti, insieme al coprispalle. Infilai quella direzione alla svelta, con i passi pesanti degli scarponi dietro di me.
Il sangue mi si ghiacciò.
Perché quell'uomo mi stava seguendo?
Voleva assicurarsi che non scappassi, o cos'altro?

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