Tango dell'asciugamano

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Non avrei creduto di poter uscire dalla questura peggio di così: come se il cielo ti stesse per crollare in testa e tu non potessi farci niente. Mi ero illusa che affrontare di petto il mio aggressore, rivederlo in tutta la sua realtà dopo esser stata assalita dalla sua ombra per tanto tempo, mi avrebbe aiutato a scacciarla una volta per sempre; mi ero illusa che sarei uscita più forte.

E invece no. Non mi ero mai sentita così sola in tutta la mia vita.

Soltanto il pensiero di dover affrontare una battaglia in tribunale contro un uomo così potente, che aveva tutte le carte in regola per farmi a pezzi, mi faceva sentire un topolino disarmato di fronte non a un gatto, ma a una tigre.
Mi avrebbe divorata, e non se ne sarebbe nemmeno accorto.
E nessuno avrebbe potuto impedirlo.
Né la polizia, né i miei amici, né Ivan.

Ivan! Cosa ne sarebbe stato di Ivan? Sarei stata così egoista da trascinarlo in quel baratro con me, lui che ora stava così faticosamente tornando alla luce, come un vecchio minatore che per tutta la vita avesse visto solo buio?

Bastò che il suo solo pensiero si affacciasse alla mia mente per sentirmi bruciare dalla sua assenza.
Avevo bisogno della sua voce, delle sue mani, delle sue labbra.
Avevo bisogno di una boccata di lui, o sarei morta annegata in quel mare di oscurità.

Mi misi a correre attraverso il parcheggio, mi fiondai nell'auto di Sara.
- Portami a casa di Ivan, per favore.
La mia amica non sbloccò nemmeno il freno a mano, restò a fissarmi come mi stesse passando ai raggi X.
- Ti porto a casa tua invece, e mi racconterai per filo e per segno cos'è successo. Così conciata non vai da nessuna parte.
- Devo vederlo, ti prego!
- Lilù, non sappiamo nemmeno se sia in casa o no! Ivan la mattina tiene lezione in palestra, ricordi? Aspetta almeno di essere un po' più lucida.
- O mi porti tu da lui o prendo l'autobus da sola!
Soltanto allora Sara si convinse a ingranare la marcia.

La distanza tra la questura e la nuova casa di Ivan era solo di una decina di minuti, ma a me sembrarono dieci secoli. Rimasi lì, liquidando con un generico "te lo racconto dopo" le domande con cui la mia amica cercava di scardinare il mio silenzio, misurando con gli occhi la distanza che mi separava dal mio uomo.
Non salutai nemmeno Sara nello scendere dalla sua macchina, mi precipitai nel portone, non mi passò neanche per la testa di bussare al citofono e di assicurarmi che Ivan fosse in casa.

Salii di corsa i tre piani di scale, mi afferrai al passamano pur di non rallentare, non sapevo nemmeno cos'avrei fatto quando l'avessi visto, mi bastava averlo davanti.

Mi attaccai al campanello.

Nessuna risposta.

Suonai più e più volte, picchiai anche la porta con le mani.
Non era possibile che lui non fosse in casa, non poteva lasciarmi sola così.

Finalmente sentii da lontano il tono inconfondibile del mio uomo.
E anche piuttosto alterato.

- Ma chi cazzo è che rompe le palle? Non sono mica dietro la porta!

Ivan comparve sulla soglia.
Bagnato, gocciolante fino ai capelli.
E con null'altro che un asciugamano a cingergli la vita.

Mi fissò con gli occhi sgranati.

- Tu? 

Non gli diedi il tempo di dire altro.

Mi gettai su di lui, gli buttai le braccia al collo, macchie sempre più grandi si allargarono sui miei vestiti, rivoli d'acqua mi scorsero in faccia.

- Non mi mandare via, ti prego... ho bisogno di te, - gemetti appena le mie labbra riuscirono a staccarsi dalle sue, le unghie affondate nelle sue spalle.

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