Elisa

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Pioveva ormai da giorni e l'acqua che copiosamente cadeva dalle grondaie era la copia delle lacrime che scivolavano sulle sue guance un tempo rotonde e lisce, che presentavano adesso solchi scavate dalla magrezza, pieghe nelle quali le lacrime scorrevano come nel letto di un fiume in piena.
Guardava fuori ed il suo sguardo vagava nel vuoto, non osservando nulla, non soffermandosi sul traffico mattutino, o sui ragazzi intenti ad andare a scuola o sugli alberi mossi dal temporale, i suoi occhi si muovevano da destra a sinistra, come in cerca di qualcosa, di una risposta, in quel cielo cupo e grigio, illuminato ad intermittenza da lampi improvvisi. La sua mente era un martello pneumatico che incessantemente ripeteva un'unica parola, cattiva, nera, impronunciabile per molti, perché creava disagio, paura, incredulità: cancro.
La finestra dell'ospedale si riempì del bagliore dell'ennesimo lampo e chi avesse alzato lo sguardo dalla strada, avrebbe visto per un'attimo, l'ombra di un viso consumato, devastato, emaciato e non avrebbe saputo dire se fosse stato di un uomo o di una donna, perché la perdita dei capelli, delle sopracciglia e la gracilità, rendevano quel viso qualcosa di androgino, qualcosa per cui non perdere il tempo ad osservare, in quanto causa di disagio, di pietà, di commiserazione.
Elisa era lì ormai da qualche settimana, che per lei era diventato un tempo infinito.
Le avevano assicurato che la cura sperimentale stava attecchendo, che le cose miglioravano, che la sua "pappa" stava in fin dei conti producendo buoni risultati. La chiamava così la sua dose di Parp-inibitori, molecole che a quanto sembrava, funzionavano in maniera ottimale nelle pazienti che presentavano un difetto, una mutazione ai geni Brca 1 e 2.
Per questo lei si considerava una mutante, come quelli del film X-Men, peccato però che non avesse alcun super potere, tipo come Tempesta, che poteva controllare il clima e gli elementi naturali. In quel momento un potere del genere le poteva venire utile e far finire di piovere e magari tirar fuori un arcobaleno, grande, pulito, forse un doppio arcobaleno, ma sì, si poteva anche esagerare e correre alla base di questi e trovare lo gnomo Leprecauno col pentolino d'oro. Non che l'oro potesse aiutarla più di tanto. Le cure, essendo sperimentali non le costavano niente, era all'interno di un programma di studio e quindi praticamente viveva da settimane nella struttura ospedaliera, visitata, curata, analizzata, e secondo lei, se servisse anche vivisezionata. Però qualche spicciolo in più non avrebbe certo fatto male, considerando che finita la fase sperimentale comunque doveva continuare con le cure di mantenimento.
Ma si disse nella mente "se ci arrivo alla fase di mantenimento", consapevole della sua situazione, della malattia che le aveva portato via già 3 anni e più con chemioterapie, momenti di lieve ripresa per poi combattere ancora con le metastasi, con altri interventi, con gli effetti collaterali, con i pianti, le speranze.
Era quello che la faceva continuare a combattere, la speranza, la fede in un domani migliore, anche solo sperare in un domani, in qualche anno, o forse mese, non lo sapeva, nessuno lo sapeva. Ma tutti le dicevano di avere speranza, di combattere, di resistere, e lei era lì in prima linea a combattere a fare il criceto della situazione, come cavia umana, nella speranza di essere quantomeno utile allo sviluppo di questa nuova cura, per donne probabilmente più fortunate di lei. - Sono la mutante regina, la prima della nuova specie - si disse sottovoce, anche se sapeva che non era vero, non era la prima sottoposta a quel tipo di cura, ma non era importante, non faceva differenza, l'importante era essere ancora lì ad aiutare gli studi per gli altri, ma soprattutto essere aiutata, fare qualcosa per se stessa. Ormai la cosa principale era quella, pensare a se stessa, concentrarsi sul proprio essere, tirarsi su d'animo e pensare positivo, cercare di non cedere, perché se crollava, non c'era nessuno che potesse tenderle una mano per farla rialzare, nessuna mamma, nessun papà o fratello. Purtroppo sola dalla nascita ha dovuto imparare subito a difendersi dalle brutture del mondo, senza mai arrivare a credere che la cosa più brutta sarebbe arrivata dall'interno del suo stesso corpo, da quella parte di corpo che anni fa molti ragazzi e uomini bramavano, alla quale nessuno aveva mai avuto modo di accedere, ed ora era il centro d'interesse di tutti i medici che la seguivano, purtroppo il tumore all'ovaio destro aveva portato la sua vita su binari inaspettatamente solitari, nella speranza di non imboccare il classico binario morto.

Incerta sul da farsi, considerata l'ora tarda ma ancora troppo presto per abbracciare Morfeo, decise di farsi una passeggiata all'interno dell'ospedale, dirigendosi verso il seminterrato. Le piaceva vagare per i corridoi illuminati dai neon, alla ricerca di qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere e perdere un po' di tempo, prima di concludere l'ennesima giornata anonima.

 Le piaceva vagare per i corridoi illuminati dai neon, alla ricerca di qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere e perdere un po' di tempo, prima di concludere l'ennesima giornata anonima

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Si ritrovò in un corridoio che portava verso l'obitorio, ma una volta imboccata la corsia, si ritrovò a voltare verso la chiesetta ed ad entrarci. Non era religiosa, anche se da piccola aveva avuto una educazione cristiana e tra l'altro, erano anni che non pregava più, tranne quando aveva dovuto sopportare la prima chemio, dove pregò il Signore di morire, di essere scollegata da questa tortura che la gente chiama vita, pregò di non dover subire più, mai più una violenza simile, ed invece l'entità che osservava dall'alto, si prendeva gioco di lei.
Si sedette su una delle panche, fredda, impolverata e scricchiolante, e fisso lo sguardo su una croce stilizzata sistemata su un'altare misero e povero di qualsiasi tipo di decorazione, con un unico vaso pieno di fiori appassiti. Osservò la croce, con quel Cristo sottile e sinuoso, magro come lo era lei, sofferente come era lei, indifeso come lei, quasi remissivo pensò, ma non come me - Io non mollerò, non cederò - sussurrò a denti stretti, mentre stringeva forte il bordo superiore della panca, tanto da far diventare i polpastrelli ancora più pallidi ed ischemici, di quello che già erano.
Pensò alla sua vita pre-cancro, cercò di ricordare qualche evento gioioso, ma la vita con lei non era stata proprio generosa, anche se, riflettendo bene, non vi erano stati nemmeno eventi troppi negativi, a parte che come orfana, aveva dovuto vivere con persone che dovevano essere considerate la sua famiglia, per questo le strutture venivano chiamate case-famiglia, rifletté, per simulare un qualcosa che in verità non è, una parvenza di normalità, per convincere anche i più sfortunati che vi può essere uguaglianza tra disperati. L'unica uguaglianza fu che tutti pativano la mancanza di veri affetti, la mancanza di una persona a cui stringere la mano per essere guidati in un mondo perverso ed insensibile. Ma nonostante questo, Elisa si sentiva positiva, la sua vita sterile di amore, non aveva condizionato il suo modo di pensare, non l'aveva spezzata, forse un po' piegata, ma grazie alla sua resilienza era sempre tornata a sorridere, a cercare la sua posizione all'interno della comunità, a camminare con la schiena dritta e le spalle larghe, così larghe da poter sopportare quasi tutto, sì, quasi tutto. Però ovviamente al tutto c'è un limite.
Rivolse ancora lo sguardo verso quel Cristo appeso e fece una smorfia - Ti sei divertito abbastanza con me?? Non pensi che sia ora di rompere a qualcun'altra?? - si alzò di scatto e schizzò fuori borbottando parole incomprensibili, tornando a gran passi verso la stanza numero 318.

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