"Questa sembra una giraffa", pensò Elisa, guardando una delle tante nuvole. Era passata un'ora ormai dall'ultima visita del Dott. Manfredi, che le aveva preannunciato che il giorno seguente sarebbe stata sottoposta alla TAC full body con mezzo di contrasto tramite enema e che quindi oggi doveva seguire una dieta adattata e che la sera e la mattina dopo avrebbe dovuto effettuare dei clisteri evacuanti ed inoltre per l'esame dell'intestino, avrebbero usato il solfato di bario. E poi un sacco di consigli, di raccomandazioni, di numeri enunciati, di bla bla bla, tanto che per dieci minuti si era mentalmente assentata, con lo sguardo fisso negli occhi del dottore, ma fondamentalmente lo sguardo era perso nell'osservare quella macchietta marroncina che si trovava sul lato destro dell'iride azzurra dell'occhio sinistro. Una di quelle cose che ti spingono ad indugiare all'esplorazione, alla valutazione, al chiedersi, come può la natura inficiare la bellezza, la purezza di un azzurro così cristallino con una macchia catastrofica posta lí, in mezzo al mare, senza senso.
Il colloquio finí e quel mare azzurro con quello scoglio solitario, salutò educatamente e volò presso qualche altro caso complesso o disperato o irrisolvibile. Pensandoci bene, non aveva mai chiesto in quale categoria lei si trovasse, ma poco importava, era adesso soltanto un numero oggetto di studio, un numero tra tanti messa a disposizione della scienza, e lei quantomeno era felice di essere finalmente utile a qualcuno e per qualcosa, era il numero 318, quello della stanza.Individuò un'altra nuvola, "Questa potrebbe essere un cane" riflettè inclinando la testa su un lato per inquadrare meglio l'immagine dell'animale, che già incominciava a trasformarsi, ad assottigliarsi, a deformarsi, "Come me", ed osservò le sue mani, con le dita affusolate ma prive di forza.
Scese dal letto, infilò le ciabatte rosa con la gomma bianca, afferrò la bottiglietta d'acqua "Devi bere, ha detto il dottore" e s'incamminò lungo il corridoio affollato dell'ospedale. La mattina c'era sempre movimento a differenza del pomeriggio e soprattutto della sera, quando diventava un mortorio. Per restare in tema percorse lo stesso corridoio dell'altra sera e si avviò questa volta verso l'obitorio, dove spesso si accalcavano un sacco di persone di ogni genere. Alcune volte era interessante osservare le diverse tipologie di soggetti presenti al capezzale dello sfortunato di turno. La maggior parte delle persone presenti erano lì con la faccia triste di circostanza, con la mano pronta a dare una pacca di conforto alle persone più prossime al defunto, gente che per educazione o per circostanza era presente per dimostrare la propria vicinanza, la loro comprensione ed a volte semplicemente la loro presenza, che un indomani poteva significare poter chiedere un favore in cambio, creare un vincolo leggero, sottile, ma utile. Coloro che veramente soffrivano erano solitamente un paio, al massimo si contavano sulle dita di una mano, ed erano ben percepibili in mezzo al marasma di gente che arrivava ed andava via, erano coloro che rimanevano fermi, immobili, non necessariamente in lacrime, perché magari ormai quelle erano finite nelle ore precedenti, ma fortemente tesi ed immersi nella loro bolla, lontani dal silenzioso caos che li circondava. Quando si soffre, ognuno di noi ha un modo diverso per esternarlo, a volte visibile a volte impercettibile. C'è chi grida, ripetendo sempre la stessa frase all'infinito, fino allo sfinimento, fino a quando le grida diventano un sussurro, come una litania monotona ed a lungo andare anche molto fastidiosa, tanto da indurre chi è di fianco ad avere impellente bisogno di prendere una boccata d'aria, anzi più boccate d'aria, sentendosi come un carcerato libero nel cortile che guarda soddisfatto il cielo limpido e spera di poterci rimanere il più a lungo possibile, fin quando il secondino non lo prende a calcio nel culo per farlo frettolosamente rientrare. C'è poi chi piange, senza fine, senza vergogna, senza remore, accumulando pezzi di carta bagnata tra le mani che vengono piegate, stritolate, fatte a pezzi e tolte da qualcuno che prontamente rifornisce un nuovo pezzo asciutto, da poter intridere nuovamente e far ripetere il ciclo fin tanto che verrebbe da chiedersi, quanta acqua salata le nostre ghiandole riescano a produrre, perché il nostro corpo è incredibilmente forte quando si tratta di dover soffrire, quando deve patire sofferenze indicibili, quando viene portato allo stremo ed oltre. Vi sono poi coloro che soffrono in silenzio, dentro, nell'anima, che portano gli occhiali scuri, non tanto per coprire le lacrime o gli occhi arrossati, ma per non far vedere alla gente, ai curiosi, ai confabulatori, che non vi sono lacrime, che non ci sono occhi gonfi, eh no, non ci sono, ma solo occhi tristi, occhi vuoti, persi nei pensieri, nei ricordi di qualcuno che era importante, di qualcuno che ormai non potrai più salutare, più abbracciare, coloro che soffrono dentro, non portano le stigmate degli urlatori, o dei lagnosi, no no no, questi non danno modo al mondo esterno di percepire fisicamente il loro stato o grado di sofferenza, non hanno bisogno di far capire al popolo degli indiscreti quanta sofferenza hanno in corpo, perché anche se dentro la tribolazione, il tormento, la sofferenza è tanta, il loro corpo, le loro movenze rimangono quelle di ogni giorno, ricalcano il loro ruolo quotidiano e capita di essere tacciati in questo modo di inverosimile insensibilità.Prese un sorso d'acqua dalla bottiglietta e si alzò dalla panca sistemata nel corridoio, che dava una visione quasi invidiabile dell'obitorio. Si incamminò nella direzione opposta e giunse di fianco alla porta della chiesetta che come sempre era aperta, "Ma la porta viene lasciata aperta per incentivare la gente ad entrare o c'è sempre un maleducato con la coda?" riflettè Elisa. Si affacciò, e notò la presenza di una signora seduta al primo banco, con la testa china, quasi come se si fosse addormentata, se non fosse che la sentiva canticchiare una di quelle canzoni che si ascoltano durante le messe della domenica durante la liturgia. Entrò e si sedette un paio di banchi più dietro, ossia all'ultimo banco disponibile, ma nella fila opposta, verso la fine del banco, in modo tale da poter osservare la signora e poter, senza dover girare la testa, ma solo lo sguardo, guardare il crocifisso sottile e minimale sull'altare, in una sostanziale posizione strategica. La signora, vestita in maniera sobria, senza fronzoli, ma con un semplice jeans e felpa, non girò nemmeno la testa, nonostante i rumori provocati dallo scricchiolio del vecchio banco su cui si sedette Elisa, che incominciò a squadrare e studiare il suo nuovo soggetto. Dopo aver visto decine di persone all'obitorio, adesso nel silenzio spezzato dal leggero canto della signora, si sentì più tranquilla e rilassata, e pronta a capire chi fosse questa nuova intrusa. Le piaceva osservare la gente e cercare di capire che tipi fossero, cercare di immaginare la loro vita, il loro lavoro, se avessero una famiglia, un cane, un gatto, creare situazioni ed eventi. Nella sua vita aveva imparato che capire la gente era importante per evitare guai, per anticipare problemi che potevano sorgere, un làscito della sua infanzia vissuta tra disadattati e case famiglia, dove il più forte predominava e chi non lo era, doveva imparare a sopravvivere per non patire.
La signora finí il canto e dopo una breve pausa ed un rumore di pagina girata, ripartí con un nuovo canto, leggermente più veloce ed armonico, tanto da portarle alla mente musiche pop, di quelle che si sentono in radio, orecchiabili e che ti rimangono dentro. Le vennero in mente diversi motivetti, e mentre stava indugiando mentalmente su quale fosse quella che più le piaceva, vide la signora improvvisamente alzarsi di scatto, chiudere con uno schiocco il libricino che aveva in mano e dirigersi velocemente verso la porta. Vide la felpa color amaranto girare svelta dentro l'uscio e sparire in un lampo, "probabilmente" pensò Elisa, "si sarà ricordata di qualche appuntamento o forse avrà guardato l'orologio per rendersi conto di essere in ritardo" per chissà quale incontro o affare, probabilmente presa dai suoi canti avrà perso la cognizione del tempo, come stava capitando a lei. In ospedale ormai da qualche settimana, non sapeva nemmeno che giorno fosse e nemmeno le interessava, perché tanto fuori non c'era nessuno che l'attendesse e comunque lí nella camera 318 si stava bene, non poteva lamentarsi nemmeno del cibo, per quanto si dicesse dell'alimentazione ospedaliera, la temperatura era piacevole, costante, non necessitava inoltre di riflettere su cosa mettersi indosso per andare a far compere o per andare a cercare lavoro o per andare dall'estetista, quella ladra che le spillava sempre un patrimonio per delle unghie che duravano quanto la scia di una stella cadente nella notte di San Lorenzo. Le venne in mente la canzone che assomigliava alle armonie cantate dalla signora fuggitiva ed incomincio anche lei a canticchiare: << Wake me up inside
Call my name and save me from the dark
Bid my blood to run
Before I come undone
Save me from the nothing I've become...>>
Eh sí, era proprio così, aveva bisogno di essere salvata dal niente, dal nulla che era diventata, voleva essere salvata dal buio che le scorreva dentro, aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi, a cui poter raccontare le sue pene e magari le sue future gioie e magari....
Entrò un tipo strano allampanato, con la barba incolta ed occhi gonfi, ad interrompere i suoi pensieri ed il suo canto, che appena incrociò i suoi occhi, disse in tono sommesso - Ciao - e lei dopo averlo squadrato da cima a fondo, dopo aver notato i suoi occhi tristi cambiar espressione, risposte lentamente e senza tono - Salve -.
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Alle 14:12
Cerita PendekLa storia di un uomo comune, perso nelle sue convinzioni, perso nelle sue idee, che viene inseguito da un amore 'eterno, ma non troppo'.