Nona maledizione

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Guidai per molto tempo. Superai il profilo grigio di una decina di paesi, separati da boschi implacabili e lunghi rettilinei, altrettanto monotoni. Il cielo era sempre più nero, e le luci sul cruscotto non raggiungevano l'oscurità sui nostri volti. Mio fratello aveva alzato il riscaldamento, e questo smussò un po' il freddo tagliente. C'è di peggio che avere sonno e freddo allo stesso tempo? No, io credo di no; a meno che non si aggiunga anche la fame alla lista che, per fortuna, non avevo.

Passata la metà del viaggio guardai il volto di mio fratello nel riflesso dello specchietto. «Vuoi sapere perché non ho riportato in vita papà?» chiesi.

«Sì.»

«Ho provato e riprovato. E semplicemente, non ci sono riuscito.» Non avevo molte spiegazioni in più da dare e lui sembrò accettare la risposta.

«Forse eri solo troppo stanco. Non fartene una colpa.» Disse come se non gli importasse davvero.

«Non me ne faccio nessuna.» La mia non fu una risposta triste. Non fu allegra. Solo necessaria.

Mio fratello giocò con qualcosa in tasca. "L'anello di papà" pensai. «E il tuo cuore, come sta?» chiese ancora. «Hai mai provato a curarti con... come lo chiami tu?»

Sembrava una provocazione ma non lo era. «Rifiuto di Evento!» Presi aria dal naso e risposi anche a quello. «Sì, ci ho provato, ma il mio cuore è sempre stato così. Non posso riportarlo ad uno stato precedente alla malattia.» Misi le emozioni da parte e per tutto il resto del viaggio non parlai più.

L'Alucard era a memoria d'uomo uno dei migliori locali notturni della provincia. Era all'antica senza essere stucchevole. Aveva un'atmosfera familiare, di usato che metteva a proprio agio, con dettagli insignificanti che avevano ancora importanza per chi li coglieva. Era come se un velo lo separasse dal mondo esterno. Ti ci sentivi sicuro. Non come in quelle mostruosità di plastica e vetro, piene di tappezzerie finte e brand progettati a tavolino del giorno d'oggi. Era famoso per la carne brasata a lungo. Gli enormi piatti di pasta fresca. Ci si poteva ubriacare o restare sobri. I giovani lo usavano come punto di incontro per una bevuta prima di andare a ballare, e i pensionati stavano seduti sul retro, a parlare dei vecchi tempi che miglioravano sempre di più man mano che gli anni passavano. Lì potevi fare quello che volevi senza paura di essere interrotto e, cosa più importante, era gestito da una famiglia di demoni integrata alla perfezione.

Quando arrivammo girai con la macchina attorno al laghetto d'entrata, parcheggiai e aspettai le solite feste di Zack, il cane dei proprietari addetto all'accoglienza. Era un bel cagnolone color champagne, con la lingua morbida e le orecchie penzolanti, affettuoso e giocherellone. Lo accarezzai tra le orecchie e poi seguii mio fratello all'interno.

Ci sedemmo a un tavolo di legno contro il muro, anch'esso di legno, e ordinammo entrambi la stessa cosa: bistecca brasata e birra scura. L'attesa non fu lunga, e dopo un sorso e qualche boccone, mi decisi a parlare. Incrociai le mani davanti alla bocca e scelsi con cura le parole. «Parlami dell'assassino di papà.»

Lui alzò il sopracciglio. Spostò il boccone nella guancia e parlò. «Assassino? Un giustiziere a giudicare dalle sue vittime.» Lasciò la frase in sospeso e riprese a masticare. Per qualche istante sviscerai le implicazioni della parola... giustiziere. Poi decisi che mio fratello poteva continuare. Lo puntai con la forchetta e deglutii la carne.

«Va avanti» dissi.

Lui smise di mangiare. «Secondo te, è giusto uccidere le persone malvage? Anzi no, lascia stare. Fai finta che non ti abbia chiesto niente. È normale che la risposta sia no. Rispondi come risponderebbero tutti. È giusto. Perché di fronte agli altri si deve dare l'idea di pensarla così. Ma è una bugia. Avanti, prestami il cellulare.»

Il Diavolo non è il CarneficeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora