La battaglia di Edessa

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I momenti prima della battaglia, sono momenti terribili, perché si alternano entusiasmo e sconforto immaginando il dopo, fino a quando prevale la speranza e ritorna la fiducia. In caso di cattura da parte del nemico, solo i cavalieri se la cavano, perché si paga il riscatto e vengono restituiti alle famiglie. Per chi come me, che non può pagare il riscatto, c'è la morte. Per questo non mi sarei arreso mai, anche se tutto sarebbe sembrato perduto, non sarei indietreggiato. Nella mia testa ripetevo fino allo spasimo: "Mai arrendersi! Mai smettere di combattere! Nessuna paura!"
Il mio cuore batteva sempre più forte. Sì, avevo paura, non mi ero mai trovato in un qualcosa di così grande. La tragedia era lì davanti a me, e continuavo a ripetermi: "Vince chi combatte. Vince chi non si arrende!" e poi ancora: "Volontà, amore e non mollare mai!" Sentivo la pressione che mi mandava in fiamme la faccia. Guardai in direzione di Edessa e vidi una nuvola di polvere. Erano loro, i saraceni. Smisi di avere paura, e accarezzai il mio arco, la mia salvezza.
Fu dato l'ordine di prepararsi per la carica. "La carica?" pensai, ma i nostri cavalieri non erano così numerosi. Per ogni cavaliere cristiano ce n'erano cinque saraceni. Fu addirittura dato l'ordine per una carica frontale. Ustor pensò che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno. Dissi agli altri cavalieri di stargli attorno, lui doveva assolutamente rimanere in vita, o noi non saremmo più potuti ritornare in patria. I cavalieri si schierarono, faceva un bell'effetto. Alle mie narici giungeva un certo odore di sterco di cavallo, sudore e paura. L'ordine fu dato e i cavalli procedettero piano. Ad un certo punto noi vedemmo solo una nuvola di polvere. Presi le mie lenti nella canna di cuoio e seguii gli eventi. Vidi la carica. Il trambusto era grande. Sentivo persino i colpi del ferro. La battaglia si protrasse, ma qualcosa stava accadendo. I nostri sopravvissuti arretravano. Andai da un consigliere dei comandanti e gli misi una pulce nell'orecchio, dissi che io al suo posto avrei schierato la fanteria e creare un muro di scudi. Dandosi delle arie lanciò ordini, ma così fu fatto. I primi cavalieri arrivarono a spron battuto, coperti di sangue. Nella mia mente mi dissi: "Forza Ustor ritorna". Alzai la bandiera affinché Ustor la vedesse. Nella confusione della ritirata lo vidi, ma cadde da cavallo lontano dal muro di scudi. Lo raggiunsi e lo aiutai ad alzarsi, ero confuso. All'improvviso fummo raggiunti dai nostri tre cavalieri, ne avevamo persi due. Bisognava arretrare oltre il muro. Ci trovammo oltre il muro di scudi, ma non vidi Ustor, era ferito ed era rimasto indietro, i saraceni stavano arrivando. Loro partivano al galoppo, sceglievano il bersaglio, e quando erano a distanza ravvicinata scagliavano la freccia letale e fuggivano via per poi ricaricare e ricominciare. Vidi Ustor lì in mezzo e i cavalieri saraceni si avvicinavano. Non c'era altro da fare. Armato di arco e coraggio corsi verso di lui. Lo raggiunsi, mi raccomandai l'anima a Dio e incoccai la freccia. Dovevo colpirli mentre erano ancora distanti. Ecco vidi quello che ci aveva puntato. Diressi l'arco verso di lui, trattenni il respiro e la freccia patì. Con lei parti la salvezza. Nostra naturalmente. Il cavaliere saraceno si trovò a terra, sicuramente incredulo negli ultimi suoi istanti. Ne vidi un altro che correva verso di noi. Non potevo sbagliare, non avrei avuto una seconda possibilità. Unico suo punto scoperto era il volto e la mia freccia lo centrò in pieno. Adesso erano in due a puntare verso di noi. Colpii alla gola il primo, ma l'altro si avvicinò troppo e lo colpii a stento al petto. Cadde vicino a noi, lo vidi soffrire, vidi la sua speranza svanire, vidi che lo sconforto lo assaliva. Ma non potevo cedere ai sentimenti, sembrava tutto perduto, ma non potevo cedere. Si avvicinavano troppo. Tesi l'arco, cercai la concentrazione, la trovai, aprii la mano, la freccia partì con un suo desiderio di salvarmi, e lo trovò nel petto del nemico aprendosi un varco nella sua armatura. I saraceni ci raggiunsero, mi armai della spada di Ustor e attesi l'arrivo del cavaliere. Quando fu davanti a me balzai alla sua sinistra e lo colpii al ginocchio fracassandoglielo. Passai al successivo, schivai la sua lancia e lo trapassai da parte a parte. Vidi i saraceni vacillare, i nostri cavalieri mi raggiunsero e aprirono battaglia con le spade. Avvenne un fatto, arrivò un saraceno al galoppo, in mano non aveva una spada, ma una mazza di ferro, si insinuò con coraggio fra di noi e colpì un nostro cavaliere, gli fracassò l'elmo e il cranio. Allora io lo inseguii, lo agguantai per il mantello, lo tirai con tutta la forza che mi era rimasta e cadde con tutto il cavallo, poi la mia spada fu l'ultima cosa che vide. Mi impadronii allora della mazza, per un attimo la guardai e rimasi quasi incantato, era completamente decorata in oro, pensai che tutta quella decorazione non gli aveva salvato la vita, ma era bella, poi la battaglia mi chiamò con forza e mi lanciai in un altro corpo a corpo, usavo la spada come scudo e poi calavo fendenti con la mazza di ferro. Avevo osservato la lotta fra formiche, esse spezzano gli arti dell'avversaria, poi passano alla successiva, così io colpivo alle ginocchia e alle mani. Sentivo i gemiti di dolore e li vedevo fuggire, eravamo rimasti solo in tre a difendere Ustor, sembrava tutto perduto, ma poi vidi la nostra fanteria che presa di coraggio per il nostro gesto si lanciò all'attacco, ricacciando indietro i saraceni. La battaglia per me era finita. Io ero sfinito, ma vivo. Mi misi in ginocchio e respiravo a fatica. Ero coperto di sangue, ma non mio. Toccai il crocifisso di bronzo che avevo al petto, dietro avevo inciso il mio nome, almeno per avere un nome sulla mia tomba. Ma non per quel giorno. Avevo combattuto per la vita.
Intorno a me c'era la tragedia, giovani vite spezzate o morenti, nulla di eroico, ma solo tragedia. Poi partirono tutti alla ricerca dei propri feriti, o i corpi di quelli che non ce l'avevano fatta. Notai che cercavano anche i saraceni feriti che potevano essere curati per poi chiedere un riscatto e restituirli alle loro famiglie. Ma per chi non poteva essere curato c'era un pietoso colpo di grazia, tanto pietoso quanto veloce e letale. Mi accorsi che uno di quelli che avevo trafitto con una freccia al petto, strisciando si avvicinò e con un rantolo di voce mi disse: "Christiani! nam misericordiae tuae Deus, animam meam. Numquid gratiam ego te ad vitam. Miserere". (Cristiano! per la pietà del tuo Dio, salvami. Te ne sarò grato per tutta la vita. Abbi pietà). Parlava latino, mi avvicinai, gli tolsi l'elmo. Era lui! Il cavaliere che avevo incontrato nel deserto, che gli avevo dato un mio prezioso libro, che mi aveva dato il suo cannocchiale. Si avvicinarono degli uomini, ma io li scacciai via. Era un mio prigioniero. Gli detti dell'acqua, e ne osservai la sua espressione di gratitudine quindi gli chiesi: "Quid nomen tuum est?"
Mi rispose: "Al Eqlraya".

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