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Song: 

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L'equazione di Dirac descrive in modo relativisticamente invariante il moto dei fermioni. Scritta in altro modo, (∂ + m) ψ = 0. Essenzialmente, l'equazione dice questo: se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possiamo più descriverli come due sistemi distinti, ma in qualche modo sottile diventano un unico sistema. Quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l'altro, anche se distanti anni luce.

Non sono un fisico, non ho idea di cosa siano i fermioni né sarei in grado di leggervi la formula, ma posso dirvi che  (∂ + m) ψ = 0 era quello che provavo nei confronti di una ragazza di nome Rebecca. Io e lei eravamo due sistemi separati, in qualche modo sottile diventati un unico sistema. Non importava quanto fossimo lontani o quanto tempo passassimo senza parlare: malgrado tutti i miei sforzi, io non riuscivo a smettere di amarla.

Almeno così credevo. Adesso, col cuore spezzato e apparentemente dieci giorni di vita rimasti, non so più in cosa credere.

Prima di spiegarvi, però, meglio fare qualche passo indietro, a quando tutto ha avuto inizio. O forse fine.

Quel giorno, il mio turno alla tabaccheria finiva verso l'ora di cena. Dopo aver scritto a mio babbo - nonché proprietario della tabaccheria - di aver chiuso tutto, sono uscito fuori, pronto a salire sulla mia bici e tornare a casa. Ho dato uno sguardo all'insegna della tabaccheria: se quando avevo 17 anni mi avessero chiesto "Dove ti vedi tra 10 anni?" sono sicuro che non avrei mai risposto: "Ad Arezzo", il paese in cui ho vissuto praticamente la mia intera vita. Persino quando facevo l'Università a Siena - studiavo Architettura - non mi ero spostato in città, e appena ho mollato ho iniziato a lavorare in tabaccheria. La gente di solito mi chiede: perche hai mollato? Non è facile da spiegare. Un po' perché era un periodo difficile e un po' perché avevo capito che non faceva per me. Non so ancora "cosa fa per me", a dire il vero, però di sicuro so "cosa non fa per me" e l'Università fa parte di questa categoria di cose, al momento.

Era il 2 febbraio, per cui in teoria avrebbe dovuto fare freddo, ma quel giorno era stato incredibilmente caldo. Dopo aver percorso un po' di metri, decisi che era meglio togliermi il giubbotto che avevo addosso. Non avevo nemmeno bisogno di fermarmi: avevo fatto quelle strade talmente tante volte che avrei potuto arrivare a casa persino da bendato.

Togliendo le mani dal manubrio - andare in bici senza mani era sempre stato uno dei miei pochi talenti - mi sono tolto il giubbotto con estrema facilità. Me lo sono legato in vita, mentre un piacevole leggero vento iniziava a soffiarmi addosso. Avevo caldo, sì, ma comunque fuori c'erano meno di dieci gradi e il vento iniziava a non essere più tanto piacevole, soprattutto perché del sole rimaneva solo un leggero rosa all'orizzonte. Maledendo la scelta di poco prima di togliermi il giubbotto, staccai di nuovo le mani dal manubrio per rimettermelo addosso. Non mi mancava molto prima di arrivare a casa e ho sempre sofferto molto il caldo - considero il mio corpo una specie di termosifone portatile - ma preferivo non prendermi un raffreddore che, grazie alla mia fortuna, avrei sicuramente preso se avessi continuato a pedalare con solo la felpa addosso.

Ecco: fu in quel momento che mi arrivò l'ennesima conferma di non essere proprio in grado di fare la scelta giusta.

Stavo guardando dritto davanti a me, controllando che il semaforo fosse verde - lo era, per inciso - ed ero pronto a girare l'angolo, ma quella curva non la feci mai, perché qualcuno sbucò correndo dalla mia destra, evidentemente senza guardare.

Riuscii ad evitare lo scontro per un pelo, solamente grazie ai miei fantastici riflessi - o piuttosto perché avevo già riportato una delle due mani sul manubrio.

Ancora Una VoltaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora