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Non ricordavo esattamente come fossi arrivata a casa, il che probabilmente non era una bella cosa. Avevo guidato sovrappensiero per tutto il tempo. Quando entrai, mi ero ormai convinta che Rider non fosse reale. Che me l'ero sognato.

Inspirai a fondo per tentare di calmarmi.

Quattro anni. Quattro anni passati a tirare via uno strato di dolore dopo l'altro. Quattro anni per disfare dieci anni di schifo, per sforzarmi di dimenticare tutto. Tutto tranne Rider, perché lui meritava di non essere dimenticato. Ma faceva parte del passato: la parte buona del passato, purtuttavia un passato che non volevo ricordare.

Mi fiondai in cucina. Trovai Rosa, in una casacca da medico azzurra a fantasia d'impronte di gatto, i capelli raccolti in una coda. Si era organizzata per tornare a casa in anticipo quel giorno. Mi guardò perplessa.

«Ehi, centometrista, dove te ne vai?» mi chiese, posando la scodella sul bancone. Mi arrivò il profumo dei condimenti dell'insalata.

Mi vennero in mente mille parole, e sentii il bisogno di parlarle di Rider, perché dovevo farlo sembrare di nuovo reale, ma mi si era sigillata la gola. Se le parlavo di Rider, c'era il novantanove per cento di probabilità che si arrabbiasse.

Perché Rosa era rimasta al mio fianco per ogni strato di dolore che mi avevano strappato via. Il dottor Taft apparteneva alla scuola di pensiero «Accetta il tuo passato», e di solito Rosa e Carl erano d'accordo col dottor Taft, ma su quell'argomento tifavano per la squadra «Il passato è passato». Erano fermamente convinti che ogni dettaglio di quel passato dovesse restare nel posto che gli competeva. E Rider faceva indubbiamente parte del passato.

Quindi mi limitai a un'alzata di spalle e andai a prendere una Coca in frigo.

«Com'è andato il primo giorno?» Si vedeva che era palesemente scontenta della mia scelta in fatto di bibite.

Le sorrisi, anche se mi sembrava di avere delle serpi che mi si contorcevano nello stomaco. Erano lì dentro da quand'ero salita in macchina.

Rosa aspettava una risposta.

Sospirai e feci rotolare la lattina tra le mani. «È andato bene.»

Sorrise e le vennero le rughette intorno agli occhi. «Bene. Ottimo, anzi. Quindi nessun problema?»

Scossi la testa.

«Hai conosciuto qualcuno?»

Stavo per scuotere di nuovo la testa, ma mi fermai in tempo. «Una... una ragazza nel corso di letteratura.»

Parve spiazzata. «Le hai parlato?»

Mi strinsi nelle spalle. «Più o meno.»

Mi guardò come se mi fosse spuntato un terzo braccio. «In che senso 'più o meno', Belen?»

Aprii la lattina. «È nel mio corso, e si è presentata. Le ho detto... sette od otto parole, credo.»

La sorpresa lasciò il posto a un largo sorriso, e per un attimo dimenticai l'inattesa apparizione di Rider. Quel sorriso orgoglioso mi scaldava il cuore.

Dimostracelo. Così aveva detto Carl quella mattina, e quel sorriso mi confermava che ci stavo riuscendo. Rosa sapeva benissimo quanta strada avevo fatto e quant'era difficile per me rivolgere la parola a un estraneo, anche solo per dirgli otto parole.

«Che bello.» Venne ad abbracciarmi, e inspirai con gioia lo strano odore del sapone antibatterico e il lieve sentore di mele della sua crema per il corpo. Mi baciò sulla fronte e poi si tirò indietro tenendomi per le braccia. «Cosa ti avevo detto?»

«Che... non sarebbe stato difficile.»

«E perché?»

Giocherellai con la linguetta della lattina. «Perché ho già... fatto la parte difficile del lavoro.»

Il ritorno inaspettato Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora