1. Piper

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La stanza era buia, illuminata solo da una lampada che spandeva la sua luce in rivoli sulla cerata del tavolo della cucina.

La casa, la stessa casa che era stata di Emery non più tardi di quel pomeriggio, incombeva curva, malevola, aveva muri accartocciati e pronti a precipitarsi su di lei.

Le ombre vorticavano sulle pareti bianche ed Emery era in fiamme, come se avesse un tizzone ardente al posto del cuore.

Un'ombra afferrò la lampada e la puntò sul suo volto. La luce impietosa le fece tremare le palpebre e lei sentì il suo viso liquefarsi nel calore bianco.

«Signorina Wilson» disse una voce. Non la riconosceva, ma sapeva a chi apparteneva. Era tutto così semplice «Lei è davvero un essere ripugnante.»

Le ombre divennero inchiostro, colando sulle pareti. La stanza ondeggiava nel tumulto della luce, che era immobile ma sembrava aggredire lo spazio tutt'attorno.

Una figura affiorò nel chiarore, scrutandola con occhi vacui e implacabili, distantissima da lì ma intenta a contemplare la rovina che attendeva Emery. Il suo volto era una maschera di cera.

«Quel che è peggio» disse, ma la sua bocca non si mosse «È che lei è una vera sciocca»

Era la stessa persona che le aveva già rivolto la parola, anche se la stanza sembrava piena di gente lei ne era sicura. Sentiva su di sé gli occhi di infiniti spettatori che mormoravano in assenso. In loro riconosceva gli accenti di persone che aveva conosciuto e amato: il timbro di suo padre, quello delle sue compagne di scuola, quello dei colleghi che aveva avuto e che ora erano per sempre al di là, in un mondo inconoscibile del quale lei non faceva più parte.

Ora anche il suo collo bruciava; i polsi, le caviglie, tutto in lei bruciava e si inceneriva, per poi prendere fuoco ancora e ancora.

«Dica a Dwaine che mi dispiace» la sua voce suonava irriconoscibile, quella dell'uomo le pareva familiare, al confronto «Non è colpa mia, non è colpa mia, lo giuro!»

«Dare la colpa ad altri» l'uomo spense la luce «È da deboli.»

Solo a quel punto Emery si rese conto che il chiarore non proveniva dalla lampada. Abbassò lo sguardo e i suoi occhi furono accecati dalle fiamme che la divoravano.




Si svegliò di soprassalto, soffocando un singulto.

Era difficile dire se fosse stata la fine dell'incubo a restituirla al mondo o la suoneria insistente del cellulare che la chiamava dalla tasca della felpa.

Forse il sogno era finito molto tempo prima e lei era rimasta sospesa in un lungo vuoto, irraggiungibile per gli altri e per sé stessa.

Si diede qualche secondo per respirare e per sentire il gelo del finestrino sulla pelle, poi lesse il nome sullo schermo: Piper, ovvio. Era una chiamata via internet, farla con la rete normale avrebbe avuto un costo esorbitante.

«Pronto, cara» disse, cercando di non pensare troppo a come sarebbe uscita la sua voce. Più ci avesse pensato, più il suo tono sarebbe risultato innaturale.

«Cara un corno» le rispose stizzita Piper, con un lieve eco dovuto alla linea poco stabile «Cosa significa "Ho disdetto l'affitto e torno a casa, ci sentiamo dopo"?»

Come aveva previsto, Piper aveva letto solo in quel momento il suo ultimo messaggio, mandato senza neppure pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze, o a come rispondere agli interrogativi che inevitabilmente sarebbero seguiti.

Prima che torni l'estateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora