5. Il padre

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La stanza era rimasta così come l'aveva lasciata. Non l'estate precedente, l'ultima volta che era venuta in visita, ma come l'aveva abbandonata otto anni prima quando aveva caricato sulla vecchia utilitaria di Piper tutte le cose che potevano starci ed era partita senza voltarsi indietro.

Non c'erano stati cambiamenti, da allora: era diventata un luogo di passaggio, un porto intermedio dove gli oggetti venivano portati, usati e poi di nuovo portati via, mentre tutto il resto rimaneva com'era.

Provò un'ondata di gratitudine per quella camera che era sempre rimasta ad aspettarla, muta, immutata; per la prima volta forse anche una punta di allegria al pensiero che sarebbe nuovamente vissuta.

Poi lo specchio ovale sulla parete di fronte alla porta le restituì la sua immagine sfatta e senza colore ed Emery si sentì nuovamente precipitata nella sua realtà. Sembrava che sui suoi capelli castani fosse caduto uno strato di polvere, perché erano opachi e senza luce. Le occhiaie si mangiavano il suo volto e apparivano ancora più grandi in contrasto con i suoi tratti minuti, contro la pelle diafana.

Si riscosse e lasciò cadere a terra i bagagli, sgranchendosi un po', per non essere costretta a vedere le sue spalle innaturalmente curve sotto il peso delle valigie.

Fuori dalla finestra sotto lo spiovente il vento continuava a battere le cime degli alberi, senza pietà. Tra di loro riconobbe l'abete che aveva visto tutti i giorni per i suoi primi diciott'anni di vita e pensò che le somigliasse.

Abbracciò tutto con lo sguardo come se lo vedesse per la prima volta, passò la mano lungo la bacheca su cui un tempo erano state appese tutte le sue foto: i buchi che la affollavano appartenevano a tutti i momenti che aveva condiviso con Charles, che dormivano amorevolmente riposti dentro un raccoglitore in una scatola di legno sotto al letto, chiusi a chiave.

Foto di famiglia ne aveva solo con il padre.

Ora, da dove iniziare?, si chiese. Non era abbastanza lucida per avere un piano preciso, ma doveva fare qualcosa – qualsiasi cosa – quel giorno stesso, o sarebbe diventata matta.

I suoi occhi si posarono sulla collezione di libri di cucina che troneggiava sulla mensola sopra il suo letto, la prima opera che si fosse intestardita a finire da sola, la prima cosa per cui avesse risparmiato ogni giorno, dolorosamente per quanto dolore poteva esserci in un'undicenne quasi spensierata, pur di poterla finire.

Ricordò un giorno di tanti anni prima, un giorno terribile, in cui aveva iniziato a cucinare senza fermarsi per ore e ore e poi per giorni e giorni, fermandosi solo per dormire e mangiare, fino a che le sue mani screpolate non avevano iniziato a sanguinare.

Vado a trovarmi un lavoro, si disse, proverò ovunque, che altro devo fare? Purché papà non lo sappia, non adesso. Un giorno sì, ma non adesso.

Sarebbe rimasta più a lungo in camera sua, ma più osservava la sua vita passata meno sapeva come guardare in faccia l'adolescente che era stata e dirle che aveva fallito. Portò con sé al piano di sotto solo uno dei libri di cucina.


«Allora, fringuello, adesso vuoi dirmi che succede?» chiese suo padre, non appena la ebbe di fronte con due tazze di caffè fumante a dividerli.

Per prendere tempo, Emery giocherellò con il cucchiaino della zuccheriera, come se lo vedesse per la prima volta.

La testa le girava per la botta, la mancanza di sonno e soprattutto per la consapevolezza che qualunque cosa avesse detto da lì in avanti non avrebbe mai più potuto essere contraddetta. Lì si giocava la felicità di suo padre, probabilmente.

Di fronte a tutto questo chiuse gli occhi, poi sorrise, o forse era uno spasmo di isteria.

Forza, Emery. Dì che sei venuta per scrivere, per un ritiro creativo... Dì qualcosa, qualcosa che abbia un senso. Ti prego.

Prima che torni l'estateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora