La giornata era semplicemente troppo bella per andare a scuola. Il mare di Genova era una distesa blu, bisognava solo cercare con lo sguardo oltre il porto e le sue strutture. Le gru, le navi con i loro alti comignoli e altre costruzioni, a volte gli sembrava deturpassero e basta il paesaggio. Altre, invece, gli sembrava ne facessero parte a tal punto che, se fossero scomparsi, ne avrebbe sentito la mancanza.
La strada che da casa sua portava al suo liceo, il Da Vigo, percorreva la costa e Lorenzo la faceva ogni mattina, da quattro anni. Corso Italia, con le sue palme e il suo mare, era stranamente tranquillo rispetto al solito, in quella mattinata di fine Febbraio. Con le mani affondate nelle tasche dei jeans, la cintura borchiata, gli anfibi e il look da metallaro che gli conquistava fin troppo spesso delle occhiatacce, percorreva sbuffando tra sé la strada.
Come si poteva andare a scuola, in una giornata simile, poi?
“Lore!” Si fermò, voltandosi a metà, guardando con le iridi chiare l’amico che, dalla traversa, gli veniva incontro. “Che faccia morta.”
“Sarà bella la tua.” Sbuffò, con un sorriso.
“Sì. Va beh.” Il ragazzo, grattandosi una corta zazzera scura, si strinse nelle spalle mentre, affiancato all’amico, camminava con lui verso il liceo che entrambi frequentavano.
“Andiamo all’acquario?” Lorenzo propose con una certa speranza nella voce. Nel vedere la faccia incerta dell’altro decise di insistere. “Dai, Enea. Non puoi davvero voler stare con la Gualtieri a sentirla blaterare su Kafka anche oggi. Ti prego!” Con la voce quasi disperata guardò pieno di fiducia l’amico, il sorriso un po’ storto che balenava sul viso avvenente, che dimostrava più dei suoi sedici anni.
“Abbiamo la verifica venerdì, su Kafka. Tra le altre cose…”
“Eddai…” Lorenzo fissò Enea. Infine, alzando gli occhi al cielo, aggiunse: “E va bene, te lo pago io.”
L’altro sorrise e mise la mano sulla spalla dell’amico.
“Mi leggi nella mente, poco da fare.”
“Sei tirchio, sei proprio un genovese…” Sbuffò.
“E tu che sei?”
“Io sono nato a Brescia, non mescolarmi con voi plebaglia…”
“Parla il potaman.” Lorenzo guardò male l’amico.
“Te lo dimenticherai mai quel ‘pota’?” Chiese con voce annoiata.
“No. E come potrei?” Enea sghignazzò.
“Avevo dodici anni, da me si usava.” Lo sghignazzo, a quella frase detta tra i denti, divenne una risata allegra, che ebbe come come risposta un’occhiata risentita.
“Almeno hai smesso di dirlo.”
“Senti, tu, coso, hai finito di sfottere? No perché Kafka e la Gualtieri cominciano a starmi più simpatici di te.” Lorenzo diede un pugno alla spalla dell’altro, che rise ancora più forte. Passando tra le mura e le strade ora decisamente più trafficate, arrivarono al porto e si diressero alla biglietteria dell’acquario.
Enea, lo zaino che penzolava dalla spalla, era appoggiato a uno dei pali nei pressi del loro obbiettivo, aspettando aprisse. Si costrinse a non fissarsi sul profilo di Lorenzo, a guardare altrove. Lo sguardo gli scivolò quindi sul porto, per poi girarsi e, dando le spalle al mare, guardare il caos alla fermata del bus. Dopo un attimo si irrigidì, afferrò Lorenzo per la manica della spessa felpa nera, e iniziò a trascinarlo via, sgattaiolando più veloce che poteva oltre la zona della biglietteria.
“Cazzo fai?” Perplesso, assecondando però l’altro, lo seguì dall’altra parte della strada, sotto i portici, infilandosi con lui in un vicolo.
Vico Morchi si inerpicava verso l’alto, tra le case. Era largo neppure due metri, pavimentato con quelle pietre grigie e squadrate, leggermente dissestate, così comuni a ogni caruggio* di Genova. L’odore era inconfondibile, qualcuno aveva lasciato qua e là tracce di vomito e altro, sopratutto nei pressi del baretto. Lì i turisti non arrivavano, di solito si bloccavano pochi metri dall’imbocco, fermati da quella che era una vera e propria barriera d’odore. Tra kebabbari, ubriachi, e altro, pur a un passo dalla zona pulita e ordinata del porto, era un altro mondo.
“Ho visto Daresi.” Enea parlò, osservando il profilo dell’amico, quei lineamenti delicati così espressivi.
“E quindi?”
“Sei scemo? Se ci vedeva dovevamo andare a scuola, non volevi saltare la Gualtieri?”
“Oh.” Lorenzo annuì, incamminandosi verso l’alto. “E ora che facciamo, quindi?”
“Un giro e tra un po’ torniamo giù.” Il vicolo si aprì su una strada un po’ più grande e si infilarono in mezzo ai turisti, che cominciavano a essere in numero più alto in quella strada e in un orario un po’ più tardo. Tra negozi di souvenir e giocattoli, proseguirono chiacchierando e Lorenzo, a un certo punto, si bloccò davanti a una vetrina.
“Ancora la storia del tatuaggio?” Enea guardò la scritta: ‘Tatoo dal 1985’, per poi riportare lo sguardo sul volto dell’amico, che osservava le fotografie appese in una bacheca appena dietro la vetrina.
“Appena sono maggiorenne.” Indicò un bicipite tatuato con un grosso tribale. “Qualcosa del genere.”
“Quello ha un braccio che è grande come la mia gamba. Non credo farebbe lo stesso effetto su di te, sai?” Ma Lorenzo lo ignorò, continuando a guardare estatico quelle immagini. Enea, annoiato dopo poco, si mise a guardarsi attorno, studiando i turisti. Non che gli spiacesse fissare Lorenzo, ma non aveva intenzione di fargli capire cosa provava. Da più di un anno aveva capito qualcosa che, stranamente, gli era stato facile accettare.
Ma l’idea che Lorenzo potesse scoprirlo e non volerlo più vedere lo spronava a mantenere il silenzio su quei pensieri. Pur avendo capito cosa provava per Lore, non aveva perso interesse per le ragazze anche se, doveva ammetterlo, erano solo un diversivo sia per non pensare all’amico, sia per non farsi scoprire. Dopo qualche altro lungo minuto di noia, però, spuntò la classica processione di turisti con guida apripista che, con occhio un po’ curioso, un po’ stanco, elencava quello che c’era da vedere. Lo sguardo del ragazzo scivolò tra uomini e donne di mezz’età di chiara e nordica ascendenza, fino a fermarsi su una ragazza, l’unica del gruppo.
Doveva essere la figlia della donna accanto a lei, entrambe bionde e alte, occhi chiari, tipiche del nord Europa.
Lei incontrò il suo sguardo e, dopo un secondo, gli sorrise. La guida però sembrava poco propensa a fermarsi all’esterno e guidò il gruppo verso la chiesa lì accanto, San Siro.
“Lore, muoviti, entriamo in chiesa.”
“Eh?” Come se si fosse risvegliato da una trance, il ragazzo fissò l’amico.
“Guarda la tipa, mi ha fissato. Muoviti, o vado da solo, secondo me le piaccio!” Si avviò verso la coda del gruppetto, dove la ragazza sembrava essere finita apposta, e la raggiunse. Dopo un attimo, Lorenzo sbuffò e si avviò con un po’ più di calma, entrando al seguito dei turisti nella basilica di San Siro. Incastrata tra le case, la costruzione non era particolarmente vistosa dall’esterno, ma una volta dentro le sue tre navate e le decorazioni barocche, la quantità di affreschi e dipinti, le vetrate colorate, colpivano l’occhio con forza.
Gironzolano a distanza dall’amico per lasciargli il modo di prendere confidenza con la ‘svedese’, si andò a sedere su una panca. Sembrava la guida avesse un sacco da dire a quella gente. C’erano sei cappelle laterali per lato e, dopo quasi venti minuti, aveva illustrato solo la prima, in una lingua che, Lorenzo ne era certo, non era inglese. Scandinavo, finlandese, o qualcosa del genere, probabilmente.
Enea e la ragazza erano a una certa distanza dal gruppo e sembravano intendersi a meraviglia. Lo sguardo tra l’invidioso e l’annoiato di Lore si soffermò un po’ sui due, per poi alzarsi al soffitto affrescato, guardando quei dipinti di angeli e santi.
“Certo che tutti questi angioletti sono noiosi.” Borbottò tra sé, lanciando un’altra occhiata ai due ora seduti su una panca. Si alzò, iniziando a girovagare e tra i turisti e qualche genovese, diede un’occhiata superficiale ai dipinti delle cappelle laterali e, vicino all’altare, vide la porta che portava nel retro della chiesa aperta. La piccola porta, di legno, era sempre chiusa visto che il chiostro non era aperto ai turisti. Non c’era nessuno a guardia e, con un sogghigno, Lorenzo ci si infilò. Non ci pensò neppure alla possibilità di rispettare il divieto: insomma, se era aperta, era un’occasione per esplorare la parte di solito chiusa al pubblico. Al limite avrebbe potuto fingere di non aver notato il cartello. Alla peggio, cosa potevano fargli? Non aveva certo intenzione di devastare nulla, era solo curioso. Entrò e si trovò in una specie di sacrestia, da cui proseguì attraverso un’altra porta, curioso ed eccitato. Qua e là, appoggiati a terra, c’erano dei dipinti e il piccolo corridoio di pietra sbucò in una grossa stanza, con dei mobili coperti da teli. Guardò fuori dalla finestra chiusa da inferriate e vide il pozzo del chiostro; provò a spingere la porta di legno con i rinforzi in ferro, del tipo vecchio. Sembrava datata quanto la basilica stessa.
Con un sommesso cigolio di protesta il battente si scostò e lui uscì.
Pieno di erbacce e trascurato, il chiostro non era molto grosso e nel centro esatto spiccava il pozzo, di pietra e coperto da quella che sembrava una grata. O almeno era quello che, per un momento, gli era parso di vedere. Sbatté le palpebre e vide, dove era certo di aver scorto il pozzo, una struttura circolare, dal tetto a pagoda. Gli venne in mente, in modo vago, che una volta lì c’erano i bagni pubblici, lo doveva aver letto da qualche parte. Ma allora perché era convinto di aver visto il pozzo, anche se solo per un momento?
Si mise a camminare lungo il perimetro del chiostro, trovando una specie di cancellino di metallo vecchio, spesso e sporco di polvere di ruggine, che chiudeva l’accesso a delle scale che davano verso il basso. Spinse e, con un cigolio acuto, si aprì.
“Ma non chiudono nulla, qua?” Mormorò tra sé, esitando.
Era buio, poco più sotto, ma un vecchio interruttore della luce, di quelli che si vedevano solo nei musei vintage, ormai, attrasse la sua attenzione. Sgusciò oltre il cancellino e lo fece scattare, mentre in basso una lampadina illuminava la fine della scalinata che sembrava tuffarsi nel ventre della chiesa, vista la direzione che prendeva.
I gradini, di pietra e consumati al centro, dovevano essere ancora parte della zona originaria della basilica, quella antica e pagana su cui era stata costruita inizialmente l’abbazia. Quasi spaventato da quel silenzio, Lorenzo si bloccò per un attimo, ma la curiosità lo vinse e scese, trovandosi davanti un corridoio di pietra antica, odorante di muffa e anche lì, il cancello che lo chiudeva, evidentemente molto più recente, era aperto.
Qualcuno forse era entrato poco prima di lui e rischiava di incrociarlo entrando, pensò esitando ancora una volta.
Ma quello sprazzo di buon senso non fece presa e il ragazzo, spostandosi un lungo ciuffo biondo dal viso e portandolo dietro l’orecchio, avanzò. Il cunicolo era costituito da grosse pietre squadrate rozzamente e un soffitto a botte, era un passaggio in cui un uomo adulto e robusto avrebbe avuto problemi ad avanzare.
Prese in mano il cellulare, che segnalava assenza di campo, e illuminò davanti a sé.
La luce della lampadina alle sue spalle non giungeva fin lì e la mente di Lorenzo, vuota a parte il desiderio di vedere cosa c’era alla fine di quel corridoio, sembrava incapace di comprendere il pericolo.
La luce del display illuminò infine una stanzetta quadrata, una cripta, al cui centro un sarcofago di pietra, decorato da alcuni bassorilievi, spiccava.
Si avvicinò, guardando quell’anonimo luogo dell’ultimo riposo di qualcuno, notando come la figura sul coperchio fosse stata deturpata. La faccia era stata resa irriconoscibile da colpi di scalpello, i bordi scalfiti della pietra ammorbiditi dal tempo.
“Qualcuno doveva volerti molto male.” Mormorò, toccando il volto privo di lineamenti, mentre il suo sguardo coglieva altre prove di quel vandalismo. Ogni traccia di scrittura era stata cancellata, in modo che il nome dell’occupante e la sua storia fossero dimenticati da tutti.
Le punte delle dita di Lorenzo accarezzarono la pietra grigia, delinearono i colpi di scalpello, studiarono quella figura sdraiata intagliata nel coperchio del catafalco. Sembrava un monaco, dava l’idea di indossare un saio.
Valentino.
Sobbalzò, sentendo un brivido di gelo scorrergli lungo la schiena.
Si guardò attorno, aspettandosi di vedere il volto di un prete della basilica pieno di rimprovero, ma era solo.
Eppure era certo di aver sentito quel nome.
Deglutì e guardò il display su cui l’icona della batteria lampeggiava.
“Come dieci per cento!” Disse con voce strozzata. Era entrato lì con la batteria quasi carica, era vero che la torcia consumava molto, ma erano passati solo pochi minuti!
Affrettandosi si voltò, quasi correndo percorse il passaggio e nell’emergere vide il cielo cupo. Non era ancora buio, ma era di certo passata la parte più luminosa della giornata.
Sentendo una paura inspiegabile afferrargli le gambe si dovette appoggiare al muro, tremando.
Aveva passato ore lì sotto.
Ore.
Il telefono cominciò a trillare impazzito: ora che aveva di nuovo campo gli stavano arrivando decine e decine di messaggi, tutti di Enea. L’ultimo era il più rabbioso e preoccupato assieme.
‘Dove cazzo sei? Ti cerco da ore, porco di quel… Idiota! Minchione!’
Sospirò.
Enea doveva essere incazzato nero, come minimo.
Controllò l’ora e vide che, in effetti, era passata tutta la mattinata... com’era stato possibile?
Aspettò, appoggiato alla parete, di sentire il tremore calmarsi e infine, sentendo le gambe un po’ più ferme, attraversò il chiostro, trovando la porta ancora aperta e si precipitò attraverso la sacrestia. Chiusa dall’interno con un catenaccio, lo tirò, uscendo nella chiesa e quasi correndo si precipitò fuori.
Per un attimo si era scordato del nome che aveva sentito, ma gli torno di colpo in mente, con prepotenza.
Valentino.
Il telefono squillò, stavolta era una chiamata di Enea.
“Bagascia!” Lorenzo si scostò di qualche centimetro il telefono dall’orecchio. “Mituscio! Abbelinòu! Magnagnisca!*” Sentì Enea prendere fiato e disse, in tono conciliante.
“Ho capito, ho capito…”
“Hai capito un cazzo, tu! Dove minchia sei, eh?” Lorenzo si grattò la nuca.
“Sono sulle scale di San Siro.” Dall’altra parte ci fu solo silenzio. “Io sono riuscito a entrare nel chiostro, dietro. E…”
“Testa di cazzo. Rispondere? Credevo fossi incazzato con me per la svedese! O che cazzo ne so! Belin!”
“Pota… non prendeva.” S’immaginò il sorriso di Enea.
“Va beh,” Si arrese infine l’amico. “Visto qualcosa d’interessante?”
“Un catafalco di pietra, gli avevano tolto la faccia e il nome, doveva stare sui coglioni a qualcuno, quel tizio.”
Valentino
Quel nome rimbalzò di nuovo nella testa di Lorenzo e, come una secchiata gelida, lo immobilizzò. Non sentì quello che Enea gli stava dicendo, troppo preso dall’improvviso brivido che lo sconvolgeva.
“Lore? Hai sentito? Lore!?”
“No, scusa, cosa?”
“Stai bene..?” Il tono era preoccupato, e Lorenzo deglutì.
“Io, sì. Sì. Sto bene. Dicevi?”
“Ci vediamo domani, allora?”
“Sì, a domani. Sono senza batteria, ciao.” Mise giù, guardando il display con l’icona della batteria pericolosamente rossa e poi tutto divenne nero, il telefono era morto. Si alzò e s’incamminò verso casa, le spalle piegate in avanti, cercando di cancellare la certezza che qualcosa gli avesse parlato. Di aver dimenticato ore della sua vita. Che quel nome non fosse solo frutto della sua fantasia.NdA
*Caruggi: è il termine con il quale in lingua ligure si indicano i caratteristici e stretti portici e/o vicoli ombrosi
di molte città e paeselli della riviera ligure.
*Bagascia: puttana
*Mituscio: omosessuale passivo
*Magnagnisca: mangiamerda
*Abbelinòu: rimbecillito
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La solitudine delle Ombre
ParanormalUn'ombra che infesta le strade di Genova è pronta a versare sangue, vuole riavere quello che gli è stato portato via. Ed è sulla gola di Lorenzo che si stringono le sue morte dita di spettro. Lorenzo, che si ritrova addosso il segno di peccati comme...