Un nome, un significato

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Ero sdraiata sul divano a pancia in giù, protetta dal tepore di una coperta di lana: era così piacevole, così confortevole... Avevo lasciato fuori solo un braccio per usare il telecomando. Premevo i pulsanti di continuo, come valvola di sfogo, e anche le immagini sullo schermo della TV cambiavano ogni volta.

Com'era possibile che non andasse mai in onda qualcosa di interessante? Dovevo tenermi impegnata per non pensare a Burald, ma il weekend, che tra l'altro era appena iniziato, sembrava lunghissimo.

La mia testa era piena di domande: si agitavano con la forza di vortici, come proiettili lanciati da una fionda, e si incastravano qua e là nei miei brandelli di carne. Ero perseguitata. Ero davvero perseguitata. Dovevo scoprire di più su quello strano ragazzo, ma c'era anche tanto, tanto altro. E tutto questo dove mi avrebbe trascinata? Rischiavo di dover pensare al passato, perché lui mi ricordava qualcuno che era stato molto importante per me, e mi avrebbe presa per un braccio, mi avrebbe trascinata indietro... Dovevo cercare in tutti i modi di dimenticarlo, di distrarmi da lui. Era come una stradina dolce, ma portava giù, giù e sempre più giù. Una gran fregatura, insomma.

Premetti quel maledetto bottone un'altra volta e sullo schermo apparve un castello diroccato, sulla cima di una montagna, con lampi che spezzavano il cielo e fantasmi che svolazzavano con i loro mantelli bianchi. Un horror, senza dubbio. Amavo quel genere, ma...

"Se mi facesse pensare ancora di più a Burald?" Spensi la Tv e controllai l'orologio: era passato un minuto dall'ultima volta che lo avevo guardato.

Affondai il viso nel cuscino. "Cosa sarà Burald?" Rialzai la testa. "Perché il suo cuore non batte?" Lanciai via il telecomando, che atterrò sul pavimento. "Perché il suo sguardo cambia così tanto, quando incontra il mio?" Andai a recuperare l'oggetto per verificare di non averlo rotto. Mi accertai che funzionasse. Sì, per fortuna funzionava. "Oh, deve esserci una spiegazione: sono sicura di aver ascoltato male il suo petto, ieri. Il suo cuore batteva di sicuro, magari piano, magari in silenzio, ma batteva. Sarò stata io a non sentirlo."

Andai in camera, dove mi sedetti di fronte alla mia scrivania: era bianca, occupata da pile di libri che non avevo mai aperto in vita mia e un computer. Lo accesi e cercai informazioni in rete su di lui. Burald, iscritto a qualche social? Improbabile. Infatti non trovai alcuna sua foto e nemmeno profili Instagram o Facebook. Digitai solo il suo nome e avviai la ricerca, e a quel punto sullo schermo apparvero le pagine candide di Google.

"Burald" derivava da una parola inglese, ma non una qualsiasi: una piuttosto... macabra. Burial. Sepoltura. Quel suono rimbombò nella mia mente in modo agghiacciante.

Pronunciare le lettere di "Burald" e "sepoltura" era una cosa molto simile, come se fossero due anelli di una catena, collegati tra loro, uniti per sempre: uno conduceva all'altro e viceversa. Rimasi con gli occhi spalancati e la faccia paralizzata a fissare lo schermo del PC. Iniziai a ridere da sola, come una pazza, non tanto perché mi sentissi ironica o divertita, ma perchè il mio petto iniziò a contrarsi da solo, come se avessi il singhiozzo. Mi lasciai andare alle risate e... Sì, Burald era un nome bizzarro, ma le trasformazioni dei suoi occhi erano frutto della mia fantasia e il suo cuore in realtà batteva. Era solo buffo.

A quanto pareva il mio nuovo compagno di classe era molto legato ai cimiteri, visto che ci scherzava sopra, ci andava spesso e il significato del suo nome si poteva collegare a quel posto. Ma era una semplice ossessione, come la mia per i ciclamini. Poteva aver ereditato la fissa per i campi santi dai genitori, oppure erano due veggenti e avevano indovinato alla perfezione le future fisse del figlio.

Spensi il computer. Rimasi a fissare il suo schermo per un'altra manciata di istanti. "Come posso tenermi occupata ora?"

Avrei potuto inventare un nome originale da dare al mio bimbo, nel caso fossi divenuta madre, avrei potuto giocare a trovare un significato macabro alle cose comuni che mi circondavano, oppure avrei potuto dipingermi le unghie di nero.

Presi lo smalto da uno scaffale di fianco alla scrivania, sopra cui erano posati decine di DVD di film gialli, polizieschi o romantici, con i quali trascorrevo il mio tempo libero. In mezzo a loro spiccava anche un vasetto di fiori bianchi, il cui candore spezzava le mille tonalità delle copertine. In realtà, la vera coltivazione si trovava in balcone, dove c'erano gigli e gelsomini in grande quantità: me ne occupavo ogni volta che rinasceva la nostalgia.

Posai una mano sulla scrivania e con l'altra cominciai ad applicare la tinta scura. Chissà cosa rappresentava quel colore... La morte? Il futuro ignoto? Magari tutto ciò che gli umani non potevano conoscere, oppure che non erano pronti a sapere. La luce mostrava le cose e l'oscurità abbracciava e proteggeva: aveva senso come ragionamento, no?

Sventolai le mani per far asciugare il nuovo rivestimento delle unghie. Avrei dovuto chiederlo a Burald, un giorno, così come avrei dovuto chiedergli perché i suoi genitori lo avevano chiamato così e perché sembrava stampato su misura per quel nome.

Così come avrei voluto ammirare il nero dello schermo, al posto di quelle pagine di Google che mi avevano detto da dove derivava il nome "Burald", così come avrei voluto che anche questa volta l'oscurità mi difendesse da certe scoperte troppo lugubri. Ma in fondo queste scoperte non erano davvero lugubri, erano solo comiche e un po' inquietanti. Quelle lugubri dovevano ancora arrivare.

A un tratto tornai a essere la ragazza impulsiva e avventurosa di sempre: mi balzò in mente un'idea tanto strana quanto pericolosa.

A un tratto tornai a essere la ragazza impulsiva e avventurosa di sempre: mi balzò in mente un'idea tanto strana quanto pericolosa

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