xv. il peso di una confessione

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C A R L O S

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C A R L O S

Il Torneo non era una gara di matematica.

Decisamente no.

Non appena l'enorme campo verde era comparso davanti a lui, si era sentito sprofondare la terra sotto i piedi. Non aveva mai visto niente di simile: il cortile della Dragon Hall non era così grande! Quello che si era trovato davanti, invece, sembrava non finire più. Circondato per una metà da un bosco e per l'altra da platee blu, il terreno dove si svolgevano le partite di Torneo era ciò di quanto più immenso avesse mai visto.

Era questo quello che intendevano ad Auradon per "ora di educazione fisica"? Un intero spazio dedicato a chissà quale gioco strano, compreso di cannoni spara-sfere di gommapiuma? Carlos poteva già sentire il male alle gambe, al solo pensiero di dovervi correre intorno—o addirittura dentro!

Ma Jay non aveva sentito scuse. Lo aveva preso di forza e trascinato in campo, nonostante le continue proteste del figlio di Crudelia sull'essere una schiappa in qualunque sport.

Alla Dragon Hall era un fatto certo, ormai. Carlos De Mon non aveva resistenza, forza, riflessi, o qualsiasi altra cosa utile in un'attività sportiva. Aveva perso il conto del numero di volte in cui era stato preso in giro per questo. I gemelli Gaston erano i suoi principali aguzzini. Solo quando era riuscito ad entrare nella banda di Mal avevano smesso di punzecchiarlo: a quanto pareva, essere amico della figlia di Malefica ti rendeva automaticamente intoccabile. Non che a Carlos avesse dato fastidio.

Tuttavia, in generale, al figlio di Crudelia non era mai importanto molto. Sapeva di essere estremamente più intelligente dei suoi compagni dell'isola, e cercava di passare sopra a questo genere di cose. Anche se a volte potevano essere frustranti.

Perciò, alla fine, si era semplicemente arreso all'idea che non potesse sfuggire a Jay e alla sua presa d'acciaio, con la conseguenza di dover per forza partecipare alle selezioni per la squadra della scuola.

E sì, esattamente come aveva immaginato, non aveva fatto una bella figura.

Si chiedeva ancora come avesse fatto il figlio di Jafar a capire le regole del gioco senza averne mai visto una partita.

Insomma, sull'isola tutto ciò che si poteva considerare lontanamente uno "sport" o una "gara" era quella che lui, Jay e Mal (e chiunque altro in quella macchia di terra) facevano ogni giorno: ovvero chi riusciva a rubare in meno tempo più oggetti preziosi.

Eppure il suo amico sembrava nato per questo: correre, saltare e tirare quella stupida palla di stoffa in rete.

Il campo dove giocavano era diviso in tre parti: da un lato, la difesa della loro squadra, i Cavalieri di Auradon; dall'altro, la difesa del team avversario; ed infine, al centro, la cosiddetta "Area di Attacco", dove i giocatori potevano essere colpiti in qualsiasi momento da delle sfere di gommapiuma volanti, lanciate da dei cannoni ad alta velocità. E Carlos pensava che giocare a Sette Minuti In Paradiso sull'isola fosse pericoloso!

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