Cap.10

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Manuel

Spesso apprezzavo la solitudine. Mi piaceva rimanere circondato soltanto dall'eco dei miei pensieri ma c'erano dei rari momenti in cui il mio volermi distanziare dal branco poteva voltarsi verso un'accezione negativa. E questa era una di quelle situazioni.

Mi sembrava di brancolare nel buio, di essere instabile sulle mie gambe e temevo che se mi fossi alzato in piedi queste non avrebbero retto.

Jennifer se n'era andata e non avevo trovato in me l'ardore di trattenerla. Come avrei potuto?

Per mesi mi ero interrogato su come sarei stato capace di sentirmi meglio in sua presenza e avevo progettato il mio malcontento e i miei sensi di colpa su di lei, l'avevo respinta e le ero stato ostile.

In fondo avevo sempre saputo che stare in posto solo mi avrebbe contenuto fino al punto in cui avrei fatto di tutto pur di strapparmi di dosso la mia posizione, ma con lei non ne avevo mai sentito il bisogno; pensavo di aver trovato il mio luogo sicuro e così era stato finché la mia carne troppo debole non aveva ceduto alla possibilità non poterla più avere vicina.

Forse l'avevo fatto per punirla- in un certo senso- o magari mi ero davvero lasciato sopraffare dal bisogno implicito di non lasciare tutto al caso e che solo lei potesse dettare le regole del nostro rapporto.

In un modo o nell'altro avevo finito per rovinare tutto.

"Datti del tempo Manuel" mi ero detto, quando l'avevo lasciata il giorno del suo compleanno "prenditi una pausa, lei saprà capirti senza bisogno che tu le spieghi nulla" perché tra di noi non erano mai servite troppe parole, ma non avevo messo in conto la possibilità che lei potesse andare avanti senza di me, che ci fosse qualcuno dietro l'angolo che l'aspettava a braccia aperte.

Non appena l'avevo vista voltarmi le spalle e sparire oltre la porta dello studio avevo compreso che sarebbe andata da lui e che, mio malgrado, non potessi far altro che rimanere in silenzio a rimuginare su ciò che sarebbe successo dopo. Non avevo la forza di sottrarmi alle immagini che la mia mente mi propinava, costringendomi a diventare spettatore del mio stesso masochismo.

Mi domandavo se avrebbe cercato conforto tra le sue braccia, se l'avrebbe baciato con lo stesso trasporto che era solita riservarmi e se, il mattino dopo, i suoi capelli scuri si sarebbero aperti come un ventaglio profumato sul suo cuscino, se lui ci avrebbe incastrato le dita allacciandole ai nodi che avevano tessuto durante la notte.

Ed io mi sentivo impotente, ad osservare da lontano una felicità di cui non avrei più fatto parte.

Quando mi lasciò solo non riuscii a muovermi: rimasi fermo ad ascoltare il rumore delle sue scarpe che repentine ticchettavano contro il pavimento e sparivano in fondo al corridoio, assieme alla scia della sua fragranza dolce; poi percepii il rombo del motore della sua auto e le ruote che stridevano contro l'asfalto.

Risi al pensiero delle sue mani sottili che si stringevano forte attorno al volante. Glielo avevo fatto notare un sacco di volte – per guidare devi avere una postura fluida – le ripetevo, ma lei corrucciava le labbra e ribatteva che – almeno non correrò mai il rischio di sbandare e finire fuori strada – e insultava i miei modi fin troppo rilassati.

Mi dissi che avrei rimpianto quella spensieratezza, poiché, accecato dal riverbero del suo volto deluso, mi promisi che non mi sarei concesso tale lusso finché non avrei trovato il modo di redimermi per ciò che avevo causato; tuttavia realizzai che avrei dovuto chiedere consiglio a chi le era più vicino, correndo persino il rischio che quest'ultimo non volesse avere nulla a che fare con me.

Così mi alzai dalla scrivania e barcollai fino all'attaccapanni dove avevo riposto un piccolo zaino e, tastandone la base, recuperai il cellulare sperando in qualche rimasuglio di batteria.

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