Cap. 16

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Lungo il tragitto dall'ospedale verso casa, non avevo potuto fare a meno di notare quanto Manuel fosse taciturno.

Dapprima avevo dato colpa alla stanchezza: dopotutto non dormivamo da almeno ventiquattr'ore e, con un viaggio di almeno cinque alle spalle, non era per nulla strano vedere i suoi occhi gonfi che si riducevano a due fessure, quasi la luce del sole che si nascondeva dietro le nuvole fosse capace di bruciare le sue iridi scure.

Sbadigliava di tanto in tanto e poi poggiava il capo sul palmo della mano, con il gomito puntato sul bordo del finestrino.

Più e più volte gli avevo chiesto se fosse in grado di guidare, se magari sarebbe stato necessario che prendessi il suo posto, ma puntualmente aveva sbuffato e, con gli occhi alzati al cielo si era limitato ad intimarmi di stare tranquilla. Così avevo abbandonato la discussione, preoccupata però che ci fosse qualcosa a tormentarlo, un pensiero ben lontano dalla spossatezza.

- A cosa pensi? – domandai, una volta individuata da lontano l'uscita della superstrada che ci avrebbe condotti fino al mio paesello nella campagna.

- Mmh? – rispose assorto, poi azionò la freccia e svoltò.

- Sei strano, hai evidentemente qualcosa in testa –

Lui sbuffò piano e si portò una mano sugli occhi, li stropicciò e poi la passò sulla fronte – non so, stavo pensando che forse non sarebbe male un giorno avere dei figli – confessò con naturalezza.

Dal canto mio, fui costretta ad ingoiare un pesante groppo alla gola; per la seconda volta nel giro di così poco tempo ci eravamo trovati di nuovo a parlare di bambini, di vite future di cui non avevamo ancora un progetto definito, che rimanevano solo una chiazza astratta nella mappa dei nostri piani.

Ogni volta, dopo tali riflessioni, tra di noi aleggiava la medesima domanda aperta, tanto grande e scomoda, il famoso "elephant in the room": accanto a chi saremmo stati tra qualche anno? E soprattutto, alla fine di questo viaggio estremo, avremmo trovato il modo di risanare le falle del nostro rapporto o era questo ormai troppo incrinato per poterlo recuperare?

Non risposi, giacché la gola troppo secca non mi permetteva di parlare, invece recuperai il telecomando del mio ampio cancello automatico e premetti il pulsante che fece spalancare le due grandi ante in ferro battuto.

- Però – commentò Manuel – questo posto non me lo ricordavo così grande –

- Sì beh, l'ultima volta che sei stato qui non ho avuto esattamente il tempo di farti un tour guidato –

Bastò questa mia frase, detta per altro senza alcun secondo fine, a zittirlo completamente, facendo sì che si adoperasse subito per recuperare le nostre valigie piuttosto essenziali dal portabagagli e che mi seguisse lungo il porticato, fino al portone d'ingresso.

Entrando notai che mamma aveva lasciato le finestre spalancate. L'aria filtrava buona e fresca dalle zanzariere abbassate e mi colpiva in volto con una sferzata del profumo tipico della campagna e dell'erba limpida di rugiada, mi riportava indietro nel tempo, a quando tutto questo era ancora un'abitudine ed agognavo i fumi pesanti della città.

Manuel si strinse nelle spalle – è davvero gelido qua dentro – ammise. Il suo respiro si mischiava con l'aria rigida mostrandosi ai miei occhi in fitte nuvolette bianche e dovetti notare che aveva proprio ragione.

Così cercai il termostato e mi apprestai ad impostarlo al massimo, dopodiché serrai tutte le imposte e mi incamminai verso la mia stanza per munirmi delle coperte più pesanti che riuscissi a scovare.

- Non ne ho trovate delle altre – dissi, porgendogli un pile color avorio – spero che siano sufficienti a riscaldarci un po' prima che i termosifoni siano completamente accesi –

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